17/12/2019

Malato da tempo e senza aiuti. Ecco perché poi chiede: «fatemi morire»

Cosa c’è dietro la richiesta di morte delle persone stanche di vivere? Ad ascoltare i tifosi dell’eutanasia di Stato, solo la legittima ed insindacabile autodeterminazione dell’individuo. In realtà, basta però scavare appena nelle biografie di quanti chiedono la «dolce morte» per capire che le cose stanno diversamente. Molto diversamente.  Lo dimostra anche il caso - per stare alla cronaca di questi giorni - di Stefano Gheller, 46 anni, di Cassola, nel Vicentino, affetto dalla nascita di una grave forma di distrofia muscolare che lo ha immobilizzato, ancora quattordicenne, su una sedia a rotelle. Ebbene, secondo quanto riportato dal Giornale di Vicenza, Gheller vuole l’eutanasia.

Una sacrosanta richiesta di libertà, per stare ai canoni della cultura dominante. Peccato che basti leggersi qualche riga delle affermazioni dell’uomo per capire come la sua sia una richiesta di disperazione, che nasce da una condizione di scarsa assistenza. Gheller infatti vive collegato ad un respiratore, motivo per cui ha bisogno di un’assistenza costante per mangiare, bere, soffiarsi il naso, lavarsi, spostarsi. Il punto è che, con la pensione di invalidità che percepisce, egli non riesce a pagarsi una badante a tempo pieno. Tutto ciò ha, per lui, delle conseguenze disastrose.

 Infatti, egli si trova, quando solo, nel costante terrore che il respiratore si stacchi; in vista di un aggravamento, che purtroppo si annuncia inesorabile, della malattia, Gheller si sente così senza speranze. «Siccome non mi hanno mai permesso di sopravvivere con dignità», sono le sue parole, «almeno sceglierò di morire con dignità». «Che vita è questa? », si chiede sempre l’uomo, che aggiunge: «Non ho mai fatto una vacanza, non ho i soldi per pagarmi una maglietta nuova o una pizza, devo chiedere aiuto per tutto, spesso affidandomi ad amici caritatevoli, perché con la pensione che mi passano riesco a malapena a pagare le tasse e una badante che stia con me la mattina e la notte».

Ora, non serve essere fini psicologi per comprendere come – nonostante l’impegno di chi già oggi, lodevolmente, presta assistenza a Stefano Gheller – costui versi in una condizione estremamente critica, rispetto alla quale la richiesta di eutanasia rappresenta solamente un estremo grido di aiuto; non certo un gesto di libertà o di autodeterminazione, non scherziamo. Del resto, non è la prima volta, si badi, che chi chiede di morire lamenta di essere stato abbandonato. Anche Noa Pothoven, la diciassettenne olandese che a fine pochi mesi fa si è lasciata morire aveva denunciato come nel suo Paese i giovani nelle sue condizioni di fragilità non avessero abbastanza supporto.

Ecco che allora si conferma come l’eutanasia, da «diritto civile» quale viene sovente presentata, nei fatti si confermi solo una comoda scorciatoia per una società eticamente miope, divenuta incapace di supportare i più fragili, che non vengono visti neppure come persone, ma solo come costi di cui liberarsi. Ne sanno qualcosa in Canada, dove hanno addirittura già fatto i conti. Uno studio apparso nel 2017 sul Canadian Medical Association Journal ha infatti stimato in 138 milioni di dollari annui il risparmio cui, a regime, potrebbe portare l’eutanasia.

L’auspicio, tornando a noi, è allora che le parole di Stefano Gheller possano non restare inascoltate; non, naturalmente, nella sua richiesta di morire ma, al contrario, nel suo appellarsi a istituzioni che, finora, l’hanno fatto sentire abbandonato a sé stesso, solo a fronteggiare una condizione di critica ma non per questo meno meritevole e degna di essere vissuta fino in fondo.

 

di Giuliano Guzzo

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