04/05/2023 di Redazione

La testimonianza di una mamma: «Non ho fatto il Bi-Test prenatale, ecco perché»

Riceviamo e pubblichiamo la testimonianza di Silvia, una mamma, sulla (non) obbligatorietà del Bi-Test e sul perché lei non lo ha voluto fare. Chiamato anche Testo combinato o Ultra-screen, è un esame di screening prenatale non invasivo che permette di calcolare con alta attendibilità la probabilità di presenza di alcune anomalie cromosomiche del feto. Test che molti usano – o molti medici propongono - come modo per una vera e propria selezione eugenetica e spronare dunque al ricorso all’aborto in caso di anomalie.




Era la mia quarta gravidanza. Avevo già tre bambini sani. La mia migliore amica aveva da poco perso il suo bambino dopo una diagnosi infausta a seguito del bi-test. Quindi, nonostante per le mie prime tre gravidanze io avessi fatto il test combinato, quella volta decisi di no. Arrivai la mattina in ambulatorio per fare quindi solo l’eco del I trimestre e la dottoressa infatti non trovando le analisi per fare il test combinato mi chiese come mai. Le dissi che non mi interessava. Lei, guardandomi un po’ strana, o pensando che non avessi capito di cosa si trattasse, mi chiese se sapessi cosa avrebbe comportato non farlo. Le dissi di sì, che lo sapevo benissimo, perché le altre tre volte l’avevo fatto. Non mi interessava sapere se il mio bambino avesse la Sindrome di Down o una patologia grave o terminale. Lei per due volte mi spiegò cosa avrebbe comportato e mi chiese “Sei ancora convinta di non farlo?” e io “SÌ”. A questo punto arrivò la fatidica domanda...”PERCHÉ?”

La mia amica aveva perso il suo bambino qualche settimana dopo la diagnosi infausta del bi-test. Era il suo terzo figlio. È stata una tragedia. Dopo la perdita è stata un anno in analisi per accettarlo. Suo marito spingeva affinché abortisse perché non voleva prolungare la sofferenza del bambino, lei invece non voleva perché gli voleva già bene e non voleva essere lei a mettere fine alla sua vita. Ha vissuto le ultime settimane nell’angoscia, nei dubbi su cosa fosse giusto fare, finché il bambino ha cessato di vivere da solo.

Ho riflettuto molto su questa situazione e ne ho parlato con mio marito. Gli dissi che come sempre avrei voluto fare anche questa volta il bi-test perché, sebbene sapessi già che non avrei mai voluto abortire, avrei comunque voluto saperlo per essere preparata all’idea. A quel punto lui mi chiese: “Pensi davvero che ti aiuterebbe essere preparata? Pensi che qualcuno possa mai essere veramente preparato alla morte di un figlio? Pensi che lo aiuterebbe questo tuo stato d’animo?”

Ed ecco quindi la mia risposta al “PERCHÉ?” della dottoressa.

Durante la mia prima gravidanza ho letto un bellissimo libro intitolato “Nove mesi in paradiso” di Alfred Tomatis, in cui spiega, grazie ai suoi studi, che durante la gravidanza si crea un rapporto, un legame comunicativo tra la mamma e il bambino che non avrà eguali nella vita fuori dal grembo materno. Io ho già tre figli e so, al di là di qualunque confutazione scientifica, che è veramente così. Io sono il suo unico mondo conosciuto, sono il suo universo, e lui vive i miei stati d’animo, le mie emozioni, li fa suoi. Sapere che lui sta per morire mi darebbe tristezza e angoscia, che inevitabilmente gli trasmetterei. Penso allora cosa vorrei per un figlio già nato che dovesse morire prematuramente. Lo vorrei coccolare fra le mie braccia, facendolo sentire tranquillo, facendogli sentire che la sua mamma è lì con lui, facendolo passare dalla gioia della mamma alla gioia eterna, come un passaggio spiritualmente indolore. Se il figlio fosse già nato e sapessi della sua fine, sarebbe molto difficile dissimulare la tristezza, per non dire impossibile, ma non saperlo durante la gravidanza mi aiuterebbe inconsapevolmente ad accompagnarlo dolcemente al suo ultimo giorno con tutto l’amore e la gioia che un bambino merita dalla sua mamma.

                                                                

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