18/10/2021 di Manuela Antonacci

La testimonianza della “Casa dei Risvegli”, dove l’eutanasia è impensabile

Per chi sventola l’eutanasia come unica e migliore soluzione in caso di patologie gravi, guaribili e non, la migliore risposta è rappresentata da esempi concreti e virtuosi come La “Casa dei risvegli Luca De Nigris” di Bologna. Una struttura dedicata alla riabilitazione, formazione e ricerca nel campo delle Gravi Cerebrolesioni Acquisite (GCA), con particolare riferimento ai Disordini della Coscienza (DOCs). Un esempio particolare, in questo campo, per una concezione del “malato” che si rispecchia in percorsi riabilitativi che adottano un approccio globale alla persona e non solo ai suoi problemi fisici. Ne abbiamo parlato con Roberto Piperno, direttore della struttura.

 

Come nasce “La casa dei risvegli” e perché?

«La casa dei risvegli è una struttura riabilitativa che si occupa di persone con grave cerebrolesione acquisita e con lesione della coscienza, che possono essere causate da trauma, emorragia cerebrale, da arresto cardio-circolatorio e così via. L’idea nasce alla fine degli anni ’90, dalla vicenda personale dei coniugi De Nigiris: il loro figlio, Luca De Nigris, era in coma ed era andare all’estero per potersi curare, così i genitori posero questo problema all’Usl di Bologna e tra gli esperti dell’azienda, in quel periodo, c’ero proprio io. Ci interfacciammo e insieme cominciammo a ragionare su quello che poteva essere fatto per dare una risposta che fino a quel momento non era presente nel nostro territorio. Tantissime, istituzioni e realtà diverse presero parte e nacque questo progetto, proprio con l’intento di costruire un centro dedicato che venne poi completato e inaugurato nel 2004».

Che ruolo hanno le famiglie nei vostri percorsi riabilitativi?

«Questa esperienza nasce come centro di riabilitazione – ci tengo a sottolinearlo - ma è caratterizzata da una vocazione molto particolare che è quella di un investimento anche nei confronti del familiare che presta servizio di assistenza. Lo scopo è quello di intervenire con una serie di strumenti ben strutturati, per aiutare chi assiste il malato a superare innanzitutto la situazione di crisi all’interno della famiglia e poi pian piano anche ad acquistare sicurezza e competenza nella gestione del proprio caro. Una famiglia “curata”, infatti, è anche una famiglia che cura. Vale a dire che è in grado di mettere in campo la sua capacità di esprimere relazione ed emozione nell’interazione col proprio caro. Da questo approccio si determinano poi  anche miglioramenti neurologici nel paziente. In più, si sviluppa anche un processo di recupero che non è solo nella medicina e nella fisioterapia, ma anche nella presenza del ruolo della famiglia, preparata, competente e accompagnata».

La vostra attività, secondo Lei, può dimostrare che, in alcuni casi, possono esserci valide alternative all’eutanasia?

«Assolutamente sì. Innanzitutto le dico che nella nostra esperienza non si è mai verificato il caso di persone che chiedessero di ricorrere all’eutanasia esplicitamente. Il processo di accompagnamento ad una pianificazione condivisa delle cure riabilitative - che porta la famiglia a ragionare, insieme agli esperti, su quello che si può fare - rappresenta un modo per consolidare la consapevolezza dei propri mezzi e soprattutto del miglioramento della propria situazione. Quindi gli elementi che potrebbero orientare il pensiero verso il desiderio di farla finita non ci sono»

Nei vostri percorsi riabilitativi sono previsti anche corsi di teatro e in genere attività culturali, ce ne parla?

«La nostra struttura è nata con l’idea di non essere solo un ospedale, in senso tradizionale, ma un luogo dove tutta la giornata fosse fortemente orientata alla riabilitazione, cioè ad ottenere le migliori risposte possibili dal punto di vista del comportamento e dell’attenzione. Per raggiungere questi obiettivi è necessario che tutto l’ambiente circostante sia un “ambiente terapeutico”. Quindi, non soltanto la fisioterapia tecnica, che è sicuramente un asse importante del percorso di cura, ma anche tutta una serie di esperienze che stanno intorno, come laboratori espressivi, teatro e musica. C’è poi la possibilità di fare uso di “contaminazioni”: per esempio si può fare musica e teatro insieme a logopedia e a fisioterapia oppure si possono mettere insieme tutte queste cose, in una sorta di narrazione autobiografica che permette ad una persona con disturbo di coscienza di ritrovare alcuni fili della propria storia personale, magari coinvolgendo il familiare».

 

 

 

 

 

 

 

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