22/10/2019

La storia di Alessandra. Quando l’aiuto non è per vivere, ma per morire

Una clinica lontana migliaia di chilometri da casa. Uno stato depressivo avanzato e la volontà di farla finita. Da sola, senza nessuno a farle cambiare idea. La storia è quella di Alessandra Giordano, che mesi fa decise di farla finita nella struttura ospedaliera Dignitas di Zurigo, in Svizzera.

Una storia raccontata dal fratello Massimiliano e riportata dal Corriere della Sera già lo scorso luglio. Una storia di solitudine e fragilità, che fa riflettere sulle opportunità e sulle necessità di aiutare chi si trova in difficoltà, non a farla finita ma a uscire dal tunnel. Una riflessione necessaria in vista della probabile discussione in Parlamento sul tema dell’eutanasia e del fine vita che ci sarà dopo l’estate.

«Ciò che continua a darmi il tormento», racconta Massimiliano, «è pensare mia sorella da sola, a migliaia di chilometri di distanza, senza nessuno di noi accanto a tentare fino all’ultimo di fermarla». Sono passati più di quattro mesi dal suo suicidio assistito in Svizzera, ma Alessandra non era malata terminale, era solamente depressa. Secondo il fratello, però, il primo grande errore è chiamare questo suicidio con l’aggettivo “assistito”. «Mia sorella», spiega, «non era nelle condizioni di decidere per sé, senza la presenza di un familiare. Nessuno ci ha informati, tutto ciò è semplicemente disumano. Per questo non smetteremo di chiedere che vengano perseguiti quanti l’hanno istigata al suicidio, in Italia e in Svizzera».

Alessandra, infatti, un’insegnante di Paternò, in provincia di Catania, di 46 anni, sembra essere stata a tutti gli effetti indotta a compiere questo gesto estremo e un punto di partenza per far luce sulla vicenda è arrivato con l’iscrizione nel registro degli indagati del fondatore dell’associazione torinese Exit, Emilio Coveri. L’uomo, infatti, avrebbe aiutato la donna a decidere di togliersi la vita con una serie di «telefonate e mail».

Un dramma nel dramma che si consumò quando la famiglia, ignara di tutto, scoprì per caso che la donna si era messa in viaggio verso la Svizzera, avvertita da un’amica di Alessandra che l’aveva incontrata in aeroporto. Alessandra non rispose mai alle tante chiamate, ma i familiari riuscirono a contattare la clinica Dignitas di Zurigo e tentarono di diffidarla dal consentire il suicidio a una persona che, come risultava dai certificati allegati alle mail, versava in un grave stato di depressione. Come racconta il fratello Massimiliano furono poi presi contatti con l’ambasciata italiana e successivamente la famiglia partì alla volta di Zurigo, ma «il suicidio venne praticato un’ora dopo il nostro arrivo». Un mese dopo la clinica recapitò alla famiglia le ceneri della donna. Proprio i familiari, però, che erano a conoscenza delle volontà suicide di Alessandra e avevano attivato per questo un servizio di psichiatria, non erano al corrente dei suoi rapporti con l’associazione Exit, di cui neanche sapevano l’esistenza.

La causa giudiziaria resta aperta e in corso, ma per Massimiliano Giordano è fondamentale che «si mobiliti soprattutto il mondo politico». Non è infatti accettabile che una donna depressa cada definitivamente nel baratro della morte con il cosciente aiuto di chi porta avanti un palese disprezzo per la vita.

Salvatore Tropea

 

Questo articolo e tutte le attività di Pro Vita & Famiglia Onlus sono possibili solo grazie all'aiuto di chi ha a cuore la Vita, la Famiglia e la sana Educazione dei giovani. Per favore sostieni la nostra missione: fai ora una donazione a Pro Vita & Famiglia Onlus tramite Carta o Paypal oppure con bonifico bancario o bollettino postale. Aiutaci anche con il tuo 5 per mille: nella dichiarazione dei redditi firma e scrivi il codice fiscale 94040860226.