06/07/2022 di Luca Marcolivio

Cannabis. Mantovano: «Depenalizzarla sarebbe una colossale presa in giro»

I parlamentari che, con tanto entusiasmo e convinzione, si apprestano a votare favorevolmente il disegno di legge sulla depenalizzazione dell’uso domestico della cannabis, dovrebbero farsi un giro nelle ore notturne nelle città dei paesi dove la legalizzazione è già avvenuta. A suggerirlo è Alfredo Mantovano, vicepresidente del Centro Studi “Rosario Livatino”, che ha recentemente dato alle stampe il saggio Droga, le ragioni del no (Cantagalli, 2002). Raggiunto telefonicamente da Pro Vita & Famiglia per un commento, Mantovano ha suggerito ai parlamentari la lettura del suo volume, rendendosi disponibile per audizioni nelle sedi politiche competenti.

Dottor Mantovano, a suo avviso, cosa comporterebbe la depenalizzazione dell’uso domestico della cannabis?

«Per usare un eufemismo, sarebbe una colossale presa in giro. Ricorda, per certi versi, la “modica quantità” che, a partire dalla legge del 1975, rappresentò uno degli strumenti giuridici che permisero il dilagare del consumo di droga. Il punto, comunque, non è soltanto la quantità delle piantine ma anche se le stesse siano state o meno manipolate attraverso tutti gli strumenti che permettono di elevare la percentuale di principio attivo. Quando si fa una cosa del genere, si apre una breccia che consente di essere riempita in base all’interpretazione del giudice. Non è da escludersi una giurisprudenza che interpreti in questa direzione: che differenza fa, in fondo, tra il possedere quattro o cinque piantine di cannabis? Al di là delle questioni interpretative, comunque, rimane il fatto che quattro piantine di cannabis non equivalgono a quattro piantine di basilico, di menta o di qualche innocua spezia da usare in cucina. Si tratta di sostanze che alterano l’equilibrio psico-fisico della persona, per cui non è permessa l’assunzione, se non dietro rigorosa prescrizione medica, così come è rigorosa la somministrazione di farmaci contenenti oppiacei, come la morfina. Qual è allora la differenza tra un farmaco contenente gocce di morfina e una piantina di cannabis? Con questo disegno di legge, però, siamo in ambito ludico-ricreativo, quindi fuori dell’area medica. C’è il rischio che, “per gioco” ci si possa far male e l’ordinamento non può consentire al proprio interno norme che permettano di ledere se stessi».

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C’è la possibilità, secondo lei, di depotenziare questo disegno di legge, attraverso appositi emendamenti?

«Più che un emendamento, proporrei una pregiudiziale: chi è così convinto che questa proposta debba essere approvata, dovrebbe andare a trascorrere quattro o cinque giorni negli Stati degli USA dove leggi simili sono state già approvate, prestando attenzione a cosa succede in quelle città nelle ore serali. Si tratta ormai di un dibattito vecchio, in cui l’unico elemento di novità rispetto al passato è che oggi, in aggiunta alle considerazioni di carattere scientifico, giuridico o criminologico, c’è il dato esperienziale. Quindi, i nostri deputati e senatori, prima di andare a votare, dovrebbero andare a vedere quali sono stati gli effetti per strada nei luoghi dove la legalizzazione della cannabis è già operativa. Se poi, tornando a casa, riterranno comunque di doverla introdurre in Italia, allora dicano chiaramente che vogliono gli “zombie” a circolare per strada anche da noi».

Al Senato è stata depositata un’altra proposta di legge, di segno opposto a quella della Camera. Potrebbe rappresentare la strada giusta per il ritorno a una disciplina giuridica adeguata sugli stupefacenti?

«La legge del 2006 era una legge equilibrata, perché, al maggior rigore nell’approccio alla sostanza stupefacente, si accompagnava una notevole elasticità orientata al recupero, tanto che erano stati introdotti strumenti giuridici per evitare il più possibile il carcere anche in presenza di condanne significative. Questo sistema ne è uscito purtroppo squilibrato nel 2014, con la riforma del governo Renzi, che ha lasciato intatti gli istituti di maggiore elasticità, mentre ha smantellato gli istituti di maggior rigore, imponendo in primo luogo la distinzione tra droghe leggere e pesanti, qualcosa di assolutamente ascientifico e contrario alla realtà. Sarebbe quindi sufficiente tornare all’impostazione del 2006, con un sistema organico in cui vi sia un percorso privilegiato per il recupero in alternativa al carcere ma intransigente nei confronti dello spaccio, cosa che adesso non avviene».

Lei ha recentemente curato il saggio Droga, le ragioni del no (Cantagalli, 2002), realizzato in collaborazione con il Centro Studi “Rosario Livatino”. Lo farebbe leggere ai parlamentari che si apprestano a votare favorevolmente sulla depenalizzazione della cannabis?

«Il nostro è un lavoro con l’obiettivo di affrontare le diverse sfaccettature della questione, quindi, a fianco dell’aspetto giuridico, c’è quello medico-scientifico, quello criminologico, quello sociale e anche una parte dedicata al recupero. Il volume è a disposizione di tutti e, se i parlamentari desiderassero approfondire in modo specifico uno o più aspetti, non hanno che da convocare per audizioni gli autori degli approfondimenti. Quello che mi auguro è che ci sia un approccio alla materia fondato su dati di realtà e non su dati ideologici. Se si afferma che la cannabis, in fin dei conti, è come una sigaretta, anzi, che rispetto alla sigaretta ha una ricaduta più socializzante, si dice una bestialità dal punto di vista scientifico, che diventa una bestialità al cubo, se riferita agli adolescenti, dal momento in cui vi sono centinaia di studi scientifici – e anche il nostro saggio lo conferma – che dimostrano i danni irreversibili determinati dall’uso della cannabis durante la fase dello sviluppo».

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