22/12/2019

Biotestamento, chi redige davvero le dat?

Meno dell’1% degli italiani ha redatto le dat, ossia il testamento biologico, secondo una ricerca promossa dall’associazione Vidas. Come leggiamo su Quotidiano sanità, «I più preparati, e favorevoli, sono cittadini residenti nelle regioni del nord-ovest, atei o agnostici, di età compresa tra i 26 e i 40 anni e con un livello di istruzione medio-alto. I meno informati vivono al sud e sono credenti over 70».

Una lettura superficiale di questi dati potrebbe indurci a scadere nell’equazione mentale secondo cui solo i più anziani, ancora assoggettati alle grinfie della religione (intesa come “oppio dei popoli”), potrebbero rigettare una simile forma di progresso, mentre chiunque sia dotato di istruzione, faccia uso della ragione, sia giovane e all’avanguardia inevitabilmente non possa che accogliere tale possibilità e farsene a sua volta promotore.

Ma cosa sono le dat? Si tratta di disposizioni anticipate di trattamento che vincolano il medico alla volontà del paziente, anche quando questa comprenda la sospensione di alimentazione e idratazione. Ma alimentazione e idratazione sono cibo e acqua. Non sono, dunque, “terapie” o “trattamenti”, come li si vuol chiamare, ma l’indispensabile per vivere. Rimuoverli non è un atto come un altro, significa condurre a morte un uomo.

E tutto questo tutelerebbe l’autodeterminazione del paziente? Immaginiamo di aver redatto le dat e che nel momento in cui esse vengono applicate siamo incapaci di opporci e veniamo fatti morire. Dov’è finita la nostra libertà? La sofferenza può indurre a chiedere la morte, un grande dolore può indurre a chiederla insistentemente. Non si desidera veramente, dunque, di morire. Chi è intorno a noi potrebbe aiutarci con cure palliative, assistenza psicologica ed economica, vicinanza affettiva e la “volontà” di morire potrebbe affievolirsi e sparire. Ma se la richiesta di morte viene soddisfatta, ciò non può più succedere.

Non sarà che quei retrogradi bigotti ci avevano visto bene sulla situazione?

 

di Luca Scalise

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