17/02/2018

Alessandro D’Avenia: “Non è un Paese per figli”

Da qualche settimana il giovane docente e scrittore Alessandro D’Avenia ha una rubrica su Il Corriere della Sera, Letti da rifare. Riprendiamo oggi ampi stralci del suo ultimo articolo sul tema dell’educazione e della paternità, dal significativo titolo Non è un Paese per figli”.

Non è un Paese per figli

«Tu vai, io sono qui, se cadi sono qui»: ricordo nitidamente il campetto di cemento screpolato sotto casa, la bicicletta gialla di mio fratello, gli alberi di mandarini di là dal muretto di protezione e l’espressione calma sul viso di mio padre quando mi insegnò ad andare in bicicletta, consegnandomi con fiducia alle strade del mondo e alle inevitabili sbucciature che dovevo imparare ad affrontare per diventare grande. Nitidamente ricordo anche i racconti di mia nonna sul nonno che non ho mai conosciuto [...]. Ricordo il sorriso costante di padre Pino Puglisi, che incrociavo nei corridoi del mio liceo dove insegnava religione, mentre le sue battaglie silenziose lo stavano portando alla morte [...].

Non è un caso che alcuni istanti siano scolpiti nella nostra memoria di bambini e adolescenti. La mia memoria e quindi la mia identità è maturata nei momenti in cui qualcuno mi ha consegnato, a prezzo del suo sudore, dolore, amore, l’esperienza imperdibile del mondo perché io la custodissi e l’ampliassi. L’uomo che sono e voglio essere lo devo al bambino-adolescente che ha ricevuto un testimone da passare, da uomini e donne che, pur con le loro debolezze, non badavano solo a se stessi, ma erano occupati a generarmi alla vita interiore, dove si annida il nome proprio che ciascuno ha e dove si origina l’energica consapevolezza di un inedito da fare. Solo le relazioni vere riescono in questa impresa di aiutarci a crescere, ma per essere generative devono prendersi tutto il tempo che serve: che cos’è, alla fine, amare se non donare il proprio tempo a un altro?

Persino Ulisse diventò eroe da bambino e adolescente. Infatti proprio alla fine dell’Odissea, in una delle scene che amo di più, egli si presenta al padre Laerte ma non viene riconosciuto dopo vent’anni d’assenza. Allora sceglie due segni per rivelarsi come suo figlio. Gli mostra la ferita ricevuta durante la caccia al cinghiale alla quale Laerte aveva inviato il ragazzo e poi lo porta nel frutteto in cui, da bambino, il padre gli aveva insegnato uno per uno i nomi degli alberi che gli avrebbe consegnato in eredità quando sarebbe cresciuto. A quel punto Laerte riconosce (conosce di nuovo) Ulisse come figlio, attraverso i sicuri segni di una storia comune: la ferita che ha reso l’adolescente un uomo e la fedeltà alle cose e ai loro nomi di cui lo ha reso responsabile sin da piccolo.

La crisi dell’educazione oggi ha un’unica matrice: la difficoltà o la incapacità di generare simbolicamente le vite, cioè di narrare la storia di cui si è parte e di affidare una qualche eredità spirituale e morale da custodire e sviluppare, dopo averla coerentemente difesa a costo della propria vita. Nella lingua ebraica la parola per indicare la storia (Toledot) significa «generazioni» perché è una storia di nomi e di compiti che Dio consegna agli uomini, e loro ai figli: non una storia di eventi ma di figli. La crisi della trasmissione, sia di identità sia di eredità, mina alla base la crescita, perché taglia la radice che rende necessaria l’educazione: l’essere figli. È questa la condizione originaria e originale di ciascuno, una condizione non meramente biologica, ma spirituale, che si genera e rigenera attraverso racconti, gesti, azioni [...].

La difficoltà a consegnare un’esperienza credibile, una storia valida, un’eredità solida, rende sterile qualsiasi relazione impegnata a far crescere l’altro [...].

Il letto da rifare di oggi è il silenzioso urlo di orfani e diseredati, ragazzi e ragazze generati alla vita ma non al senso della vita, riempiti di oggetti ma privi di progetti, dimenticati da una politica divenuta impotente (nel senso di sterile) di fronte alle cifre spaventose della dispersione scolastica, della disoccupazione giovanile e della crisi demografica. C’è una paternità che nutre i figli perché siano migliori dei padri e una invece che, come Saturno, li divora per paura che i figli caccino i padri.

[...] I veri padri aprono la strada, portano il fuoco e lo donano ai figli, nella notte fredda e buia della storia, perché poi toccherà a loro fare altrettanto, di generazione in generazione. Ma come possiamo crescere quando i padri rinunciano al loro ruolo di aprire la strada a chi viene dopo di loro? Come possiamo sperare quando i maestri perdono il fuoco?

Possiamo ancora essere figli di qualcuno?

Alessandro D’Avenia


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