Il diario di una gravidanza difficile di una diciannovenne paraguaiana, che voleva «solo vedere il mio bambino e conservare le ecografie»
Ale Ortiz, 19 anni, è una bellissima giovane paraguaiana. È una ragazza qualunque della sua età, come si vede dalle foto pubblicate sulla sua pagina di Facebook, che ama la vita, gli amici, le feste. Ale, però, ha fatto una scelta controcorrente, decidendo di portare a termine la gravidanza di un figlio che sapeva sarebbe quasi sicuramente morto alla nascita. Di qui una storia drammatica e di speranza di cui la giovane mamma ha cominciato a parlare attraverso la rete, ripresa poi da diverse tv e radio locali: «Joshua è il mio bambino nato prematuro il 31 maggio del 2012 con un cesareo programmato a 29 settimane di gestazione. Abbiamo scoperto a 12 settimane che nostro figlio aveva l”idrope fetale”».
DOLORE E BATTAGLIA. Prima di andare dal ginecologo per confermare la gravidanza la ragazza ebbe un presentimento: «Dissi a mio marito che qualunque cosa fosse accaduta avremmo dovuto lottare per nostro figlio». Di lì a poco i medici le comunicarono la notizia della malattia del piccolo: «Pensavano che nostro figlio sarebbe morto nel mio grembo, ma il piano di Dio era un altro».
Ed è a Lui che la giovane si affida. A Lui decide di lasciar fare. Come? «Prendevo la forza dall’amore di madre che tutto soffre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta sempre. Perseverare è difficile quando ti capita qualcosa di simile. Ascoltare e vedere oltre cinque fra medici ed ecografisti senza speranza è peggio di dover comprendere un’altra lingua». E poi «fa male all’anima di una madre non poter fare nulla. Perché le cose non sarebbero cambiate, se avessi mangiato di più o di meno o se avessi camminato o fossi stata ferma su una sedia».
CONSERVARE LE ECOGRAFIE. Ale, dopo la prima visita ginecologica in cui la suocera le disse di provare pena senza riuscire a darle forza, decise di andare da sola ad ogni esame clinico: «Volevo solo vedere il mio bambino e conservare le ecografie! Sentire il suo cuore palpitante mi ha spinto a continuare… I medici non capivano perché una mamma con una tale diagnosi voleva portare avanti la sua gravidanza. Ogni volta dovevo discutere per ore con il team spiegando il perché».
La ragazza provò a far capire ai dottori che il piccolo «non è un sacchetto della spazzatura che può smaltire: mi batterò per il mio bambino, non importa che viva un minuto, un’ora, mesi o quaranta anni».
Ale racconta di non aver mai smesso di credere, anche se questo non significava non soffrire: «Non nego i giorni tristi in cui sembrava che la forza e la luce si fossero completamente spente. In cui pareva non ci fossero sbocchi né strade». Ma è lì che ogni volta la ragazza si è ripresa, imparando a concentrarsi solo «sulla bellezza di quella presenza che portavo in grembo».
LA MIA RICOMPENSA. I medici le proposero il cesareo dando per scontato che il figlio sarebbe morto appena nato. La ragazza accettò pregando Dio «per farmi capire se era la scelta giusta: il mio bambino si era mosso tutta la notte, mi accompagna nel mio dolore con l’amore (…)». In sala operatoria Ale era nervosa, «ma tutta la paura e l’angoscia sono sbiadite appena ho avuto Joshua tra le mie braccia, è stato come nascere di nuovo e la mia anima gridava dalla felicità. C’era solo felicità e pace. In quel momento non potevo chiedere di più, solo ringraziare Dio». Fu allora che la giovane chiuse gli occhi e alzò le braccia davanti a tutti, per ringraziare «il Signore di avermi dato questa opportunità» e aver «compiuto il desiderio del mio Cuore».
Clicca qui per leggere l’articolo originale pubblicato da Tempi
di Benedetta Frigerio