Cresce il numero di adolescenti e giovani che credono di essere nati in un corpo sbagliato e chiedono di accedere ai percorsi di transizione di genere. Nel 2022 il SAIFIP (Servizio di Adeguamento tra Identità Fisica e Identità Psichica) segnalava, relativamente ai dati nazionali del triennio 2018-2021, un aumento del 315% di accessi di adolescenti ai centri per disforia di genere. Un dato che però non sembra preoccupare più di tanto se mancano ancora i numeri del monitoraggio del fenomeno nel 2023, sebbene l’anno in corso sia ormai agli sgoccioli.
Tali dati risultano tra l’altro piuttosto approssimativi e lacunosi. Al di là dei numeri in valore assoluto (20 casi registrati nel 2018, 83 nel 2021), dalla loro analisi non è possibile rendersi conto della dimensione del fenomeno, in quanto non viene specificato quanti ragazzi abbiano effettuato la transizione sociale, ossia abbiano cominciato ad atteggiarsi e/o a vestirsi conformemente al sesso opposto, provvedendo eventualmente anche al cambio del nome; quanti abbiano cominciato i trattamenti con i bloccanti della pubertà o quanti, pur avendo intrapreso tali cure, abbiano poi invece deciso di interromperle per un percorso di ‘detransizione’.
Secondo un’analisi critica di GenerAzioneD – associazione di genitori di preadolescenti e adolescenti che, spesso da un giorno all’altro, si sono identificati come transgender ̶ che al contrario cerca di interrogarsi sulla natura del fenomeno, non è un caso che l’aumento di accessi di adolescenti ai centri per disforia di genere si sia verificato proprio nel periodo (lockdown compreso) durante il quale i giovani hanno vissuto maggiormente «sui social – dove le identità di genere proliferano e vengono glorificate e proposte come spiegazione a qualsiasi disagio».
D’altra parte le risposte più comuni date dagli esperti nei talk show del ‘politicamente corretto’ variano dal semplicistico al puramente ideologico. «Bisogna adattarsi alle richieste che provengono dai ragazzi», ha dichiarato in una trasmissione Rai il professor Lancini dell’Associazione Minotauro. «La terapia ormonale è desiderata da tutti perché porta dei grandi cambiamenti», ha aggiunto la responsabile del centro romano Maddalena Mosconi, premurandosi anche di rassicurare gli spettatori: «Stiamo assistendo a un cambiamento culturale importante. Le famiglie non si vergognano più a portare i loro figli a osservare questa caratteristica, non la negano più come un tempo». Allo stesso modo si tace intenzionalmente sui presunti benefici sulla salute mentale e sul benessere delle persone trattate perché, evidentemente, non ve ne sono.
Ma ciò che è più grave è che si minimizza sugli effetti delle terapie ormonali (trombosi e, in alcuni casi, persino il ricovero in terapia intensiva); sull’irreversibilità dei cambiamenti dettati dagli ormoni; sui rischi d’infertilità, sterilità e disfunzione sessuale di coloro cui viene bloccata la pubertà, come sulle ricadute della rimozione di organi vitali sani sulla base di una ondivaga decisione adolescenziale.
Eppure in un simile scenario, constata infine con amarezza GenerazioneD, «in Italia i centri per la disforia di genere continuano a mettere in pratica l’approccio affermativo di genere, a prescrivere bloccanti, sottovalutando fattori che possono aver avuto indotto il ragazzo o la ragazza a dare vita a una nuova identità transgender e rifugiarcisi, e tenendo in ben poca considerazione il punto di vista della famiglia. I bambini e ragazzi continuano a essere indirizzati alla transizione medica sulla base di comportamenti ‘non conformi al genere’ o di autodiagnosi suggerite dai social e incentivate dal gruppo di pari, e i genitori vengono privati del loro ruolo educativo, (mal)trattati come transfobici per il solo fatto di dare voce alle loro preoccupazioni».
Il vero dramma è che purtroppo della reale condizione degli adolescenti, in conflitto col proprio Sé o meno, interessa poco o nulla al mondo degli adulti, che spesso sono tali solo anagraficamente e i primi a vivere all’insegna del “Fai come ti senti”. Molti genitori non riescono in effetti a essere punti di riferimento significativi per i figli per cui, alle prime manifestazioni di un disturbo d’identità del figlio, ne assecondano le percezioni ondivaghe, piuttosto che interrogarsi sulle cause dello stesso disturbo. Basterebbe anche soltanto considerare quanto l’adolescenza sia una fase delicata di costruzione del Sé – in cui può accadere che si manifesti un rapporto conflittuale col proprio corpo che, però, una volta trascorsa, viene obliato da sé – e imparare piuttosto ad additare l’autentico bene per il proprio figlio.