04/12/2020 di Francesca Romana Poleggi

Abusi sui minori: possiamo fare qualcosa.

C'è un numero verde, 800 455 270, a cui risponde l'associazione Meter Onlus di Don Fortunato Di Noto. È attivo da lunedì a venerdì dalle ore 9.00 alle ore 12.30 e dalle ore 15.30 alle ore 18.00. È un numero che offre assistenza a minori che subiscono abusi o a chi sappia di abusi che si compiono attraverso internet, i social, i giochi on line. 

In un comunicato stampa diffuso all’indomani della “Giornata mondiale dell’infanzia” dello scorso 20 novembre, don Di Noto denuncia «1 miliardo di minori nel mondo vittime di violenza sessuale, fisica e psicologica».

Considerando che nel mondo, secondo l’Unicef, ci sono 2,2 miliardi di bambini e adolescenti, un miliardo di abusi è «un impressionante fallimento, una sconfitta dell'umanità». Meter, del resto, «in soli due giorni (19 e 20 novembre), attingendo ad un solo canale Telegram, ha denunciato alle varie polizie 58.000 video pedopornografici». E Don Di Noto si chiede: «A chi fa comodo questo scempio che passa attraverso il web?», perché ancora è su base volontaria l'impegno dei colossi della rete di fornire i dati identificativi di certi clienti? 

Va poi sottolineato che gli abusi sui minori non sono solo di natura sessuale e non sono solo quelli perpetrati dai pedofili che rapiscono fisicamente i bambini. 

Ci stiamo abituando in modo sempre più preoccupante alla sessualizzazione precoce dell'infanzia; ci stiamo abituando alle pubblicità che forniscono immagini di bambini erotizzate; a film come Cutes, con una protagonista undicenne “molto sexy”: chi si scandalizza viene bollato con i soliti epiteti di retrogrado, integralista, medievale, ecc ecc.

D'altro canto, i nostri ragazzi passano sempre più tempo davanti agli schermi. E le misure restrittive implementate di questi tempi li spingono ancor di più a chiudersi dietro lo smartphone o altro strumento idoneo che - è acclarato - dà dipendenza e provoca disturbi neurologici.  

I dati dell’Osservatorio Nazionale Adolescenza Onlus, riportati da Daniele Onori del Centro Studi Livatino, mostrano come tra i 14 e i 19 anni, il 36% dei ragazzi giochi al computer o al telefono per circa un’ora e mezza al giorno; l’11% dalle 3 alle 6 ore quotidiane. Peggio i più piccoli: tra gli 11 e i 13 anni,  il 50% gioca in media un'ora e mezzo, il 15% dalle 3 alle 6 ore e il 4% più di 7 ore. Inoltre, le regole AGCOM sul mercato dei videogames sono facilmente eludibili e tutti possono acquistare senza troppe difficoltà anche giochi per adulti, pornografici o violenti. Tra l'altro, il sistema di classificazione PEGI, che indica l'età appropriata dell'utente sulle confezioni di videogame, non è obbligatorio per la distribuzione di giochi via web, dei quali fruisce il 44% dei preadolescenti e che sono un mezzo privilegiato dai mostri per  l’adescamento dei minori. 

I ragazzini, sempre più soli e “distanziati” dagli amici in carne e ossa, trovano on line compagni di giochi  che conquistano la loro fiducia e creano rapporti virtuali di confidenza che facilmente si trasformano in rapporti di dipendenza: perché dall'altro lato dello schermo non c'è il coetaneo che credono, ma un adulto che ha creato un'identità fittizia. Dopo il gioco, o sui social, ci si scambiano foto buffe o filmati divertenti. Un giorno una foto un po’ osé… poi ci si scambia qualche segreto intimo. Appena il predatore riesce  a ottenere qualcosa di “compromettente” comincia il ricatto: «Lo faccio vedere ai tuoi genitori, ai tuoi compagni di classe»  e chiede e ottiene sempre di più.

Il problema è grave e non è solo legato al sesso.

Esistono dei mostri che creano dei giochi estremamente pericolosi. Su Instagram, Facebook o Tik Tok sono molto di moda le  sfide, le prove di coraggio, che diventano sempre più “difficili” fino a comportare gesti di autolesionismo e innescano un circolo perverso che si rivela anche mortale. Alcuni ragazzini sui social raccontano della sfida a incidere sulla pelle dell'addome le lettere iniziali del proprio nome, oppure il numero del diavolo, 666. Ultimamente si è parlato di "Jonathan Galindo", il “gioco” responsabile  - a detta dei genitori - del suicidio di un bambino napoletano di 11 anni, che si è gettato nel vuoto perché doveva “seguire l’uomo col cappuccio”. 

Anche se in questo caso specifico la polizia postale pare non abbia trovato traccia di “Jonatan Galindo” nel dispositivo con cui giocava il ragazzino; anche se non ci fosse una persona o un'organizzazione specifica che mette in rete queste trappole mortali, resta il fatto che qualche anno fa per “Blue Whale”, solo in Russia, ci sono state oltre cento vittime: se anche all’inizio di tutto non ci fosse una mente malefica, ma una serie di scherzi stupidi (per usare un eufemismo), il risultato non cambia.  

I genitori dal loro canto sono ancora troppo poco informati e distratti.  Mettono troppo facilmente gli smartphone in mano ai ragazzini, aprendo account sui social ai figli  anche sotto i 13 anni. Sono troppo indaffarati. A volte è legittimo chiedersi quanto sia necessario il super-lavoro: serve per sbarcare il lunario? E allora, di certo, una società che non permette alle persone di lavorare per vivere, ma pretende che si viva per lavorare, è una società disumana. Oppure il super-lavoro serve per il prestigio, il potere, o per guadagnare il denaro necessario alla soddisfazione di bisogni superflui?  Da un punto di vista razionale, bisognerebbe riflettere su ciò che davvero è essenziale (che è “invisibile agli occhi”, come diceva una Volpe famosa).

Comunque, credenti e non, bisognerebbe convenire che chi scandalizza i piccoli: “sarebbe meglio per lui che gli fosse appesa al collo una macina girata da asino, e fosse gettato negli abissi del mare" (Mt 18,6).

Quanto ai bambini, dice don Di Noto, «non riusciremo a salvarli tutti, ma tutti possiamo salvarli».

Fonte: Panorama.it

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