30/06/2022

Aborto. La Corte Suprema Usa ha semplicemente ristabilito la normalità giuridica. Ecco perché

Due ci sembrano le motivazioni fondamentali della sentenza della Corte Suprema USA (caso “Dobbs v. Jackson Women's Health Organization”), con la quale i giudici hanno confermato la legge del Mississippi che proibisce l’interruzione di gravidanza dopo 15 settimane.

La prima muove dalla contestazione del radicamento giuridico del diritto di scelta abortiva nel 14° Emendamento della Costituzione che assicura ai cittadini le libertà politiche e civili, all’opposto di quanto invece aveva stabilito la storica sentenza Roe v. Wade del 1973. Quella norma è stata introdotta in un’epoca (1868) «in cui neanche si discuteva di aborto» — vi è scritto. Pertanto, ristabilendo la giusta ermeneutica del testo, i giudici della suprema Corte affermano che «la Costituzione degli Stati Uniti non fa alcun riferimento all'aborto e nessun diritto del genere è implicitamente protetto da alcuna disposizione costituzionale».

In effetti, l’aborto è sempre esistito, ma solo dagli anni Settanta il ricorso ad esso è stato legittimato moralmente e legalmente come un diritto di “privacy” personale nella forma di facoltà di interrompere la gravidanza. Ora, la sentenza dice a chiare lettere che, se si cerca nella Costituzione il conferimento di un diritto all’aborto, non lo si trova.

Questo importante concetto è stato richiamato anche dal governatore repubblicano del Missouri, Mike Parson che, commentando la sentenza, ha dichiarato che «nulla nel testo, nella storia o nella tradizione della Costituzione degli Stati Uniti ha dato ai giudici federali non eletti l’autorità di regolare l’aborto». Potremmo dire con una battuta: la filologia la vince sull’ideologia.

La seconda motivazione è di carattere morale: «L’aborto presenta una profonda questione morale. La Costituzione non proibisce ai cittadini di ciascuno stato di regolare o proibire l’aborto». Quindi, la sentenza richiama ad un significato della morale non prescrittivo o censorio, ma profondo. Ciò implica anche che la questione dell’aborto non può essere posta ad un livello meramente privatistico, con un richiamo ai soli diritti individuali, ma deve essere affrontata ad un livello morale nel senso di fondativo della democrazia a stelle e strisce e, quindi, sociale, civile e politico nel senso più nobile.

A tale profondità fa riferimento significativamente anche la dichiarazione firmata dal presidente della Conferenza episcopale USA, l’arcivescovo José H. Gomez, e dall’arcivescovo William E. Lori, presidente della Commissione per le attività a favore della vita dell’Usccb. «Per quasi cinquant’anni, l’America ha applicato una legge ingiusta che ha permesso ad alcuni di decidere se altri possono vivere o morire; questa politica ha portato alla morte di decine di milioni di nascituri, generazioni a cui è stato negato il diritto di nascere» — vi sostengono i prelati.

Ora, dietro quest’affermazione c’è innanzitutto il riconoscimento della dignità umana del concepito e conseguentemente della sua piena personalità giuridica. Tale riconoscimento è progredito nella società americana anche alla luce del dibattito sulla sofferenza dei feti abortiti prima della 20esima settimana.

Nel 1973, affermando il diritto all’aborto, la Corte Suprema aveva infatti fatto leva sul concetto di vitalità, sulla possibilità cioè del bambino di sopravvivere al di fuori del ventre materno, situandola “a circa sette mesi (28 settimane). Ma nel frattempo i progressi della ricerca medica hanno reso quell’indicazione temporale ingiustificata verificando che il sistema neurologico del bambino è già pienamente formato alla 20esima settimana. E i pro-life lo hanno gridato nelle strade americane all’insegna dello slogan: "Proteggiamo i feti da inutili sofferenze!".

Il 3 ottobre del 2017 alla Camera, a maggioranza repubblicana, è stato approvato il disegno di legge “Pain-Capable Unborn Child Protection Actper rendere illegali gli aborti oltre la 20esima settimana. Il provvedimento è arrivato anche in Senato, ricevendo due volte la maggioranza dei voti, ma non è divenuto esecutivo perché non è riuscito a raggiungere i 60 voti previsti e necessari.

Queste battaglie “civili”, pur tra fortissime contrapposizioni, hanno inciso in profondità sull’opinione pubblica americana generando un moto che è giunto fino alla sentenza del 24 giugno. Lo si legge tra le righe della dichiarazione dei due arcivescovi che ad un certo punto affermano solennemente: «L’America è stata fondata sulla verità che tutti gli uomini e le donne sono creati uguali, con il diritto, dato da Dio, alla vita, alla libertà e alla ricerca della felicità».

Cogliendo la significatività della sentenza, la Pontificia Accademia per la Vita ha diffuso nella stessa serata del 24 un comunicato in cui si legge: «Il fatto che un grande Paese con una lunga tradizione democratica abbia cambiato la sua posizione su questo tema sfida anche il mondo intero. Non è giusto che il problema venga accantonato senza un'adeguata considerazione complessiva. La protezione e la difesa della vita umana non è una questione che può rimanere confinata all'esercizio dei diritti individuali, ma è invece una questione di ampio significato sociale». Ne consegue, secondo l'Accademia vaticana, che dopo cinquant'anni «è importante riaprire un dibattito non ideologico sul posto che la tutela della vita ha in una società civile per chiedersi che tipo di convivenza e di società vogliamo costruire».

Richiamando il comunicato stampa di Pro vita & famiglia, possiamo affermare in conclusione che «la Corte Suprema ha rovesciato una giurisprudenza decennale dimostrandoci che nessuna sentenza o legge, per quanto durature e “politicamente corrette”, sono intoccabili». Non lo è perché nulla può essere considerato sottratto al tempo e al confronto. Né esiste un diritto assoluto di libertà da estendere in senso individualistico nel quadro di una visione privatistica della vita e dei diritti che porta alla contrapposizione madre/concepito.

È più che mai urgente allora promuovere il rispetto della vita umana in potenza e in atto e, quindi, la gestazione e la crescita di ogni essere umano nella sua irripetibile individualità. I feti non sono grumi di materia inerte, ma identità personali da proteggere e custodire. D’altra parte occorre tutelare la maternità (come prevedeva la 194 e non ha mai fatto) offrendo “una solida assistenza alle madri, alle coppie e al nascituro che coinvolga tutta la comunità, favorendo la possibilità per le madri in difficoltà di portare avanti la gravidanza e di affidare il bambino a chi può garantirne la crescita” (comunicato Pontificia Accademia per la Vita).

 

Di Clemente Sparaco

 

 

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