19/01/2020

Aborto e “giustizia riproduttiva”. Ma quale giustizia?

Ultimamente capita sempre più spesso che il presunto “diritto” all’aborto venga invocato dai suoi sostenitori come “giustizia riproduttiva”. Questa espressione deriva dalla concezione anni Sessanta secondo cui, se la gravidanza distingue le donne dagli uomini, l’aborto restituirebbe a queste ultime, che lamentavano una disparità di emancipazione sociale rispetto all’altro sesso, la tanto bramata parità sessuale.

Tutte fandonie. È sacrosanto che sia riconosciuta uguale dignità umana a uomini e donne, ma non è certo la gravidanza ad ostacolare la libertà delle donne, così come non è affatto l’aborto a garantirgliela.

Attualmente, a New York è in fase di inaugurazione una nuova mostra d’arte che vuole veicolare l’idea secondo cui l’aborto sia “normale”, leggiamo in un articolo di Life News. L’artista Jasmine Wahi, che ha lanciato il progetto insieme a Marilyn Minter, avrebbe dichiarato, a tal proposito: «Il nostro sentimento è che l'aborto faccia parte della salute e della giustizia riproduttiva, e tutto ciò che ha a che fare con la giustizia riproduttiva ha a che fare con l'autonomia del corpo e la sovranità del corpo».

Ma quale giustizia? L’aborto è solo ingiusto.

È ingiusto verso le stesse donne, che vengono esposte da questa pratica a gravi rischi per la loro salute fisica e psichica. È ingiusto verso le donne che vengono spinte a rinunciare al loro bambino a causa della povertà o della solitudine e che, invece di avere l’aborto come unica opzione (alla faccia della libertà), meriterebbero di ricevere aiuto economico, psicologico e sanitario, per dare loro modo di accogliere la vita che portano in grembo. È ingiusto verso i bambini innocenti che ne sono vittime e di cui le leggi sull’aborto stanno provocando una delle più grandi stragi della storia.

E finché l’aborto sarà ritenuto semplicemente “normale”, la giustizia in questo mondo continuerà a correre seri rischi.

 

di Luca Scalise

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