06/03/2014

Un figlio in stato vegetativo e una famiglia felice

Daniele, 14 anni, milanese, è in stato vegetativo persistente in seguito ad un’anossia per annegamento di cui rimase vittima all’età di 4. Da allora, la vita della sua famiglia, i genitori e due fratelli, non è più la stessa. “Daniele non corre più, non parla più, non ride più, ma comunica con i suoi grandi occhi azzurri”, spiegano i genitori. Di fronte alla recente legge in Belgio sull’eutanasia per i minori la mamma, Giancarla Dominoni, commenta: “E’ la disperazione, non l’amore che porta a chiedere la morte per una persona cara”. Paolo Ondarza l’ha intervistata:

R. – La prima reazione che mi viene è che non si tratta, come a volte si vuole far passare, di un atto di amore. Secondo me, è la disperazione che porta queste persone a chiedere la morte per i figli: perché li si vede soffrire, non hanno più la speranza… Secondo me, l’amore fa sì che tu stia vicino alla persona che ami, anche se poi in qualunque momento ti viene da dire: “Non ce la faccio più!”. Io vedo l’amore nel comportamento dei miei figli, di mio marito, che in tutti questi anni – sono passati quasi 10 anni – non l’ho mai visto perdere la pazienza un momento… Questo è amore. La disperazione porta a chiedere la morte, secondo me. E in questo caso, fa tanto la propaganda, perché non si dice a sufficienza che ci sono le medicine che permettono a questi bambini di non soffrire. Tra l’altro, quando ho letto la notizia dell’approvazione di questa legge, ho letto che questi bambini devono essere coscienti: ma cosa facciamo, li informiamo del fatto che li ammazziamo? Questa cosa, veramente mi sembra disumana…

D. – Lei dice: lo tsunami è arrivato nella sua famiglia in seguito ad un incidente in piscina che coinvolse Daniele, che allora aveva 4 anni, il più piccolo dei vostri tre figli, e che ne comportò il conseguente stato vegetativo…

R. – Sì, in quel momento, Daniele aveva 4 anni, Donata ne aveva 11 e Stefano 17. Io, per otto mesi sono stata con Daniele in ospedale, ininterrottamente, e questi ragazzi si sono trovati non solo senza questo fratellino che per loro era la luce dei loro occhi, ma si sono trovati senza più famiglia. Perché poi mio marito correva avanti e indietro dall’ospedale, quindi è stato uno stravolgimento totale. Quello che io posso dire è che con mio marito ci siamo detti: da una enorme disgrazia non facciamone venire fuori tre, per cui in tutti i modi per quello che è stato possibile abbiamo continuato a seguirli, ad andare alle loro partite di calcio e di pallavolo, e francamente anche a pregare insieme. Anche se in questi casi, a volte, la preghiera è una preghiera disperata, in cui dici: “Signore, io non capisco”…

D. – Una prova anche per la fede?

R. – Sicuramente. C’è stata una persona che mi ha detto: meno male che è successo a voi che avete la fede... No, assolutamente no, perché la fede tanto più è interrogata di fronte a un dolore così innocente… Tu sai che nel Vangelo c’è scritto che tutto quello che accade, il Signore l’ha permesso e tu dici: “Ma, Signore, non potevi allungare un braccio?”. Però, devo dire che anche da parte dei miei figli, con tutto il dolore che c’era, in questa cosa siamo sempre stati insieme.

D. – E siete stati sostenuti da tanti amici e da tanti volontari, da una parrocchia che si è adoperata per starvi vicino?

R. – Sì, questa cosa è importante. E’ importante per una famiglia non sentirsi abbandonati. Io non vorrei che a volte, dietro a queste richieste di eutanasia, ci sia un desiderio del contorno di alleggerirsi di un peso...

D. – Anche perché le sofferenze possono diventare “insopportabili e non lenibili”, così come dice la legge passata in Belgio, anche a causa dell’isolamento e della solitudine che si possono vivere...

R – Certo. Pensi che noi siamo arrivati ad avere 14 persone che si alternavano in casa, quando ci hanno dimessi, per permettermi magari anche solo di andare a dormire, o poter anche solo – come le dicevo – andare a vedere le partite dei ragazzi. Queste cose non sono piccole e ti permettono, poco per volta, di tornare a un minimo di normalità.

D. – Così come un grandissimo aiuto è rappresentato dalla terapia del dolore, dalle cure palliative che sembrano essere completamente ignorate dal legislatore in Belgio…

R. – Io sono farmacista e ci sono le medicine per impedire alle persone di soffrire. Anche per i malati terminali. Diamoglieli, questi antidolorifici, perché se una persona non soffre, non chiede di morire. Io temo che dietro ci sia un discorso economico che non viene detto chiaramente: cioè, una persona malata è comunque da assistere, è un costo, le medicine costano …

D. – Lei dice: questa è la mia storia, la storia della mia famiglia che, nonostante quel che è successo ma anche per quel che è successo, è la storia di una famiglia felice…

R. – E’ così. A casa nostra siamo una famiglia veramente serena e, anche se può sembrare una parola grossa, felice. A casa nostra si ride spesso… Abbiamo spessissimo Daniele in braccio, non si vede l’ora di essere tutti assieme per raccontarci le cose…

Fonte: Radio Vaticana

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