20/08/2023

Testimoni di un massacro: responsabilità e rinascita - 5 di 5 - Maria

Abbiamo raccolto le testimonianze di diversi operatori sanitari che hanno lavorato in strutture dove si pratica l’aborto. Sono testimoni di un orrore che per un certo tempo, per un motivo o per un altro, hanno voluto e potuto ignorare. Sono testimoni del massacro di bambini innocenti, delle profonde ferite che le madri portano per sempre, e dei seri problemi psicologici che devono affrontare anche gli stessi medici e paramedici coinvolti nella crudele pratica. Del resto, è acclarato che la sindrome post abortiva non colpisce solo madri e padri, ma anche altri parenti e altre persone coinvolte nell’aborto: i chirurghi e gli infermieri mostrano spesso gli stessi sintomi dello stress post traumatico (Sspt) che colpisce i soldati reduci dal fronte dove hanno ucciso. Ma i soldati hanno rischiato di essere uccisi a loro volta, mentre gli operatori sanitari hanno procurato (o assistito) la morte di piccoli innocenti.   

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Maria

Conosciamo il vero nome e il cognome di questa signora che chiameremo Maria. E sappiamo anche in quale struttura sanitaria ha lavorato. Riteniamo giusto, però, rispettare il suo diritto alla riservatezza e i nostri Lettori lo comprenderanno bene. Le testimonianze che seguiranno non sono anonime, ma sono più lontane nel tempo e nello spazio. 

«Avevo 23 anni quando ho cominciato a lavorare in quella struttura sanitaria come infermiera generica. Era proprio la mia vocazione. Ed ero particolarmente felice quando mi assegnarono al reparto maternità. Era una gioia veder nascere i bambini. 

Tutto cambiò nel ‘78, perché in quel reparto cominciarono a fare aborti. 

Alle donne dicevano sistematicamente che era solo “un grumo di sangue” e che non c’era vita, in quella “cosa” che si andava ad eliminare. Non veniva fatta alcuna consulenza psicologica, né prima né dopo l’aborto. Il “consenso informato” non parlava affatto delle conseguenze avverse, fisiche e psichiche, che potevano capitare.

Anche io ci credevo. O - meglio - ci volevo credere. E mi convincevo che io stavo solo facendo il mio lavoro e non ero io a fare materialmente quelle cose.

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Ma da quando ho cominciato ad assistere agli aborti ho cominciato a star male, a stare sempre male. Nella mia vita, fuori di lì, c’era sempre qualcosa che non andava. 

Ero profondamente infelice.

Vedevo venire ad abortire tante ragazzine, accompagnate dalle madri. Mi ricordo una che avrà avuto massimo 15 anni. La madre ci diceva: “Mi raccomando, siate delicati, la bambina non sa niente. Sa che deve fare un piccolo intervento perché non le viene più il ciclo”. Dopo  tre o quattro mesi ce la vediamo di nuovo davanti. Allora le chiediamo perché è tornata ancora. E la “bambina” ha risposto: “Mamma crede che sono cretina... ma a me piace fare l’amore!”. Noi abbiamo cercato di spiegarle che abortire non era come tagliarsi i capelli. Ma che peso potevano avere le nostre parole in quel contesto familiare?

Un’altra donna tra quelle che ricordo nitidamente è una che era venuta sola, sola come un cane, ed è scappata come una ladra...

Vedevo spesso le stesse donne andare e venire più volte, con una cinica spensieratezza. 

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Io, però, continuavo a star male, sempre a disagio. Mi sono allontanata dalla Chiesa. Tutto intorno a me era brutto. 

Credo di aver vissuto l’inferno. 

E non c’ero solo io, in quell’inferno. I medici, l’anestesista… erano costretti dal bisogno di lavorare. Solo qualcuno ha avuto il coraggio di andarsene. Tutti soffrivano lo stress e il disagio. Ci si prova a  distaccarsi, a dirsi che si sta facendo un lavoro e non si fa male a nessuno. Ma dentro c'è un malessere che non capisci, ma che non ti lascia mai. 

Un momento particolarmente terribile fu quando rimasi incinta di due gemelli e fui ricoverata per minacce d’aborto. E persi i miei bambini. Mentre stavo lì sul letto col cuore spezzato, una giovane vicino a me mi diceva che non era niente: lei era al suo settimo aborto. 

Un secondo momento tremendo è stato quando incontrai lo sguardo di una certa paziente che era lì per abortire. Uno sguardo supplicante, che chiedeva aiuto. Cercava qualcuno che le dicesse di non farlo.  Quegli occhi mi hanno scosso così profondamente che ho capito che non potevo più lavorare là. 

Ma ho dovuto affrontare tante difficoltà. Ero brava. Lavoravo senza risparmiarmi, con attenzione e velocità. Ma per dispetto, perché non volevo più stare nel reparto maternità, mi hanno messo a fare i turni più pesanti. È stata dura.

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Un giorno una mia vicina mi convinse ad accompagnarla a Messa e mi presentò alle sue amiche. Una di loro percepì il mio malessere e, senza chiedermi il perché, mi disse se poteva pregare per me.

Da quel momento mi sono riavvicinata alla Chiesa. Conobbi un sacerdote che mi disse: “Dio ti ama”. E che dovevo smetterla di giudicarmi per quello che avevo fatto: l’unico Giudice è Dio misericordioso.  Nella sua parrocchia ho poi conosciuto un Cav, un Centro di Aiuto alla Vita. Ci lavoro come volontaria da quando sono andata in pensione.

E al Cav ho potuto salvare diverse donne e i loro bambini. Sono riuscita a far capire loro che abortire vuol dire strapparsi via un pezzo di se stesse.

Mi ricordo una madre di tre figli che voleva prendere la Ru486: non poteva permettersi un altro bambino. 

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Dopo tanti incontri e tanti colloqui, le ho detto: “Invece di eliminare questo nella pancia, perché non uccidi uno di quelli che è nato? Quale ammazzeresti?”. Ha rinunciato all’aborto. Oggi, a distanza di otto anni ancora ci sentiamo e ancora mi ringrazia.

Mai una donna di quelle che abbiamo aiutato ad accettare il figlio si è pentita di averlo fatto nascere. Anzi ci mandano le amiche e le amiche delle amiche che si trovano in difficoltà. 

I volti di queste donne e dei loro bambini, hanno curato le ferite lasciate nel mio cuore da quell’inferno. E spero tanto che questa mia storia possa servire a salvare almeno un’altra mamma e il suo bambino. Ogni piccola vita ha un valore infinito».

 

Fonte: Notizie Pro Vita & Famiglia, Gennaio 2022

 

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