11/03/2019

Roboetica. Pessina (Univ. Cattolica): «Gli algoritmi già ci dominano, la questione politica»

Il workshop sul tema Roboetica: persone, macchine e salute, tenutosi il 25 e 26 febbraio in Vaticano, ha messo a confronto i punti di vista più disparati su un tema assai dibattuto ma, in fin dei conti, conosciuto superficialmente. Per iniziativa della Pontificia Accademia per la Vita, scienziati, filosofi e teologi di tutto il mondo, hanno parlato di robotica e di intelligenza artificiale, dividendosi fondamentalmente in due scuole di pensiero: da un lato, coloro che considerano il robot semplicemente come un utensile, in grado di migliorare il nostro benessere quotidiano; dall’altro quanti stanno iniziando a pensare al robot come un mezzo per una rilettura radicale della condizione umana. Capofila di quest’ultimo filone è senz’altro Hiroshi Ishiguru, direttore del Laboratorio di Robotica Intelligente dell’Università di Osaka, che ha realizzato un proprio sosia-robot e che ritiene tra qualche migliaio di anni si arriverà a riprodurre vere e proprie forme di vita inorganiche. Il mondo cattolico, pur confrontandosi con altre posizioni, rimane però fermo su una visione “realistica” della questione. Quest’ultimo punto di vista è stato illustrato a Pro Vita da Adriano Pessina, ordinario di filosofia morale all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano e membro del direttivo della Pontificia Accademia per la Vita, per la quale ha moderato il workshop in Vaticano.

Professor Pessina, si parla molto sia di robotica che di intelligenza artificiale: qual è la differenza sostanziale tra i due concetti?

«In estrema sintesi, possiamo dire che il robot, a differenza dell’intelligenza artificiale, ha un corpo meccanico, quindi è dotato di un’autonomia, seppur relativa, a differenza di un computer che, invece, non si muove. Da questo punto di vista l’intelligenza artificiale è anche legata al robot. Al workshop promosso dalla Pontificia Accademia per la Vita, la domanda di fondo è stata: perché realizzare dei robot? Mi sembra che siano due i motivi fondamentali. Il primo è legato a un’estensione di quello che già realizziamo con la meccanica e con la tecnologia. Il secondo motivo è quello secondo cui il robot stesso può diventare un sistema e un modello di interpretazione dell’umano: questa è stata probabilmente l’interpretazione più delicata e più interessante del nostro lavoro».

Durante il congresso promosso dalla Pontificia Accademia per la Vita, alcuni relatori sono arrivati a sostenere la possibilità di produrre automi dotati di dignità umana e persino di empatia: è plausibile questa ipotesi?

«Assolutamente no, sarebbe una perdita di senso della realtà. Sono macchine che abbiamo costruito, sappiamo come funzionano e in qualche modo funzionano in base a quello che noi decidiamo che facciano. C’è una seconda questione fondamentale: credo si stia dimenticando totalmente la questione della corporeità. È interessante notare che, per chi si muove all’interno della fede cattolica, il corpo non è un accessorio: non solo perché ci sono l’Incarnazione e la Resurrezione dai morti ma anche perché l’uomo non si può ridurre solamente al suo comportamento o alle sue funzioni cognitive. Quindi, da questo punto di vista, pensare di equiparare la condizione umana a una macchina che costruiamo, secondo me, è una perdita di realismo».

Questo discorso, a suo avviso, è compatibile anche con un’etica laica?

«Senz’altro. Come affermava il professor Floridi nella sua relazione, abbiamo a che fare con “elettrodomestici” sofisticatissimi ma pur sempre degli elettrodomestici. Certo, c’è anche da domandarsi se non ci sia l’intenzione di colmare delle solitudini esistenziali, perché in fondo, avere delle relazioni con una macchina che è programmata, in una contemporaneità segnata da un forte individualismo, può rappresentare una tentazione. Pensiamo anche alla comunicazione sui social media, dove fondamentalmente l’utente pensa di parlare con centinaia o migliaia di persone ma in realtà è da solo davanti al suo schermo. Quindi, c’è la tentazione di cercare nella macchina un compagno ideale, semplicemente perché è un compagno “prevedibile”, costruito, per certi versi, a propria immagine e somiglianza. Che poi questo sia davvero il futuro, io non lo credo. Oltretutto c’è un altro risvolto molto interessante, che è stato affrontato durante il congresso: mi riferisco al problema delle risorse, ovvero quanto ci costa far funzionare un robot, dal punto di vista del consumo di energia. Allora la domanda di fondo è: abbiamo bisogno di un robot, quando ci sono già gli esseri umani? Se pensiamo in termini di alleggerimento della fatica umana, sicuramente sì. Se però, teniamo presente che ci sono azioni che non possiamo delegare ad altri e che, in qualche modo, ci qualificano come esseri umani, allora capiamo che i robot ci serviranno solo per quelle che, in fin dei conti, sono le funzioni meno rilevanti della nostra esistenza. Il rischio è che, fidandoci sempre più dell’“intelligenza artificiale”, finiremo per perdere le nostre capacità naturali: a forza di usare un navigatore satellitare, non sapremo più leggere una mappa; a forza di usare la calcolatrice, non sapremo più fare calcoli a mente. Questi sono i pericoli veri. Dietro un robot, c’è sempre un programmatore, senza il quale il robot non esisterebbe. Non è dell’etica dei robot ma dell’etica dei programmatori che dovremmo parlare. Questo è il vero nodo, a mio modesto avviso».

Ritiene ci sia il rischio che le macchine, sostituendo la manodopera, possano generare una disoccupazione particolarmente massiccia, con tutti i disagi sociali che ne deriverebbero?

«Non sono in grado di fare previsioni di questo genere. È vero, comunque, che queste paure ci sono sempre state, nella misura in cui tutte le varie rivoluzioni industriali, introducendo nuove macchine, hanno prodotto questo problema. Ritengo che il problema fondamentale sia nella capacità dei robot di accumulare e generare notizie: questa, forse, è la vera grande novità, molto più del discorso della manodopera. Generando notizie, i computer e gli algoritmi condizionano i nostri comportamenti. L’antidoto credo sia nella consapevolezza di come funzionano queste macchine. La tecnologia non è più semplicemente uno strumento che dominiamo, è un ambiente culturale. Quando navighiamo su internet, interagiamo con una serie di fattori e di finalità diverse. Il programmatore ha una finalità, chi vende una app ha un’altra finalità, chi cerca un compagno per andare a cena ha un’altra finalità ancora, ecc. La questione del lavoro va inserita dentro questa dimensione della complessità. Secondo alcuni, potremmo avere fasi in cui taluni potrebbero perdere il posto di lavoro a un’età in cui è più difficile essere ricollocati per delle attività, quindi si potrebbe pensare a sostegni sociali ed economici, però credo che tutto questo sa un po’ di fantascienza. Tra la distopia e l’utopia, c’è il problema di governare il presente. La cosa che lascia veramente perplessi è che parliamo dell’avvento dei robot come se parlassimo di marziani ma i robot li costruiamo noi, quindi, sta a noi programmare quanti ne vogliamo fare, come li vogliamo fare, per quali finalità. Il paradosso è che oggi ci si chieda se c’è una differenza tra noi e le macchine, ma secondo me questa domanda non dovrebbe nemmeno sussistere».

Non c’è comunque il rischio che le macchine, un giorno, possano dominarci?

«Per certi versi, già ci dominano. Quando compro un libro su Amazon, ad esempio, l’algoritmo, in seguito, mi suggerisce una serie di libri che corrispondono a quello che ho comprato io, quindi mi condizionano come consumatore. Il problema fondamentale è esserne consapevoli. È chiaro che ci sono una serie di flussi, di dati e di elementi che sono in mano a determinate società e privati, quindi si apre un problema politico, oltre che un problema culturale».

Luca Marcolivio

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