06/07/2018

Obiezione di coscienza: il commento di Mons. Crepaldi

Ritorniamo sul caso della farmacista triestina che, ormai cinque anni fa, aveva fatto obiezione di coscienza non vendendo a una coppia la pillola del giorno dopo e per questo era stata condannata.

Pochi giorni fa è stata assolta in appello e questa è di certo una buona notizia: tuttavia, evidenzia l’arcivescovo di Trieste Giampaolo Crepaldi, nella nota che riportiamo integralmente qui sotto, per una vera tutela del diritto a fare obiezione di coscienza occorrerebbe andare ai suoi fondamenti, cosa che il sistema giuridico attuale – non fondato sulla legge naturale, che dà un ordine oggettivo alla società – non è in grado di fare. 

L’obiezione di coscienza e i suoi fondamenti.
Nota dell’Arcivescovo Giampaolo Crepaldi sulla sentenza di assoluzione della farmacista di Monfalcone

La stampa, anche nazionale, si è molto occupata della sentenza di assoluzione in appello della farmacista triestina, ma operante a Monfalcone, che si era rifiutata di vendere la cosiddetta pillola del giorno dopo (che può avere effetti abortivi) ad una coppia che ne aveva fatto richiesta nella farmacia ove lavorava. Il fatto risale ormai a cinque anni fa. L’assoluzione era già arrivata in primo grado, ma la procura aveva fatto ricorso e siamo così arrivati a questa seconda sentenza di assoluzione.

Ho seguito questa vicenda, che aveva come protagonista principale una fedele della nostra diocesi, con grande partecipazione e vicinanza, nonché con ammirazione per la coerenza di vita e il coraggio della testimonianza da ella dimostrato.

Gran parte dei commenti è stata di soddisfazione, e giustamente. La dottoressa aveva fatto obiezione di coscienza circa la sua collaborazione ad una interruzione di gravidanza per via chimica, aveva rischiato sulla propria pelle e, come una moderna Antigone, aveva preferito obbedire alla legge degli dei piuttosto che a quella degli uomini.

L’evento è degno della massima attenzione anche per il suo contenuto, ossia il riconoscimento del diritto all’obiezione di coscienza. A questo proposito l’occasione è propizia per fare qualche ulteriore riflessione.

Va tenuto presente che il giudice di primo grado non aveva riconosciuto il diritto dell’accusata all’obiezione di coscienza, ma l’assoluzione era stata motivata dalla leggera entità del danno provocato. Se la motivazione della sentenza di appello dovesse confermare questa linea, risulterebbe quindi eccessivo parlare di “vittoria del diritto all’obiezione di coscienza”. Ciò, naturalmente, nulla toglie al valore del comportamento della signora, ma impedisce di cantare troppo presto vittoria sul fronte del riconoscimento dell’obiezione di coscienza.

La strada verso il riconoscimento dell’obiezione di coscienza è ancora lunga e sarà anche molto accidentata se non si chiariranno i suoi veri fondamenti. L’attuale cultura giuridica, infatti, non è in grado di distinguere quando l’obiezione di coscienza è fatta “per obbedire alla legge degli dèi”, vale a dire per rispettare valori di ordine oggettivo, e quando è fatta per coerenza con un desiderio individuale. Logica vorrebbe che il primo tipo di obiezione di coscienza fosse difeso dalla legge, mentre il secondo no. Ma per farlo bisognerebbe avere una cultura giuridica fondata sull’oggettività del diritto e sulla sua relazione con un ordine morale. Viceversa, anche una donna incinta potrebbe fare obiezione di coscienza a che il figlio nasca. E non si può contemporaneamente convalidare l’obiezione di coscienza della farmacista che non vuole collaborare ad un aborto e l’obiezione di coscienza di una mamma che vuole invece abortire. Solo il primo può essere un diritto contemplato.

Questo per dire che il riconoscimento del diritto all’obiezione di coscienza non può fondarsi solo sul diritto ad essere coerenti con la propria coscienza, ma dovrebbe estendersi ai fondamenti oggettivi ed indisponibili della coscienza. Ma questo esula dalle possibilità della cultura giuridica di oggi, purtroppo.

Sono sicuro che il comportamento della signora oggetto della sentenza rispondeva al significato vero del diritto all’obiezione di coscienza, come adesione a dei valori indisponibili e a carattere assoluto e vincolante ogni coscienza che voglia dirsi retta. Il suo gesto ha quindi portato avanti la giusta causa del riconoscimento di questo diritto. La sentenza, invece, non ancora del tutto. Per questo c’è da augurarsi che il gesto emblematico della farmacista triestina possa essere imitato anche da altri e indurre così una nuova e corretta visione giuridica dell’obiezione di coscienza.

Giampaolo Creapaldi

Fonte: Osservatorio Internazionale Cardinale Van Thuân, Newsletter n. 901

 

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