14/01/2017

Il feto non è persona. Invece il robot è persona elettronica

Su Corrispondenza Romana , qualche giorno fa, avevamo letto che in Francia una certa Lilly da un anno è innamorata di un robot e si dichiara orgogliosa di essere “robosexual”.

Lilly si considera fidanzata con il suo robot e ha intenzione si sposarlo non appena il matrimonio uomo-robot sarà legalizzato.

Scrivevano anche che il il 19 e 20 dicembre scorsi, presso l’Università Goldsmiths di Londra, si è tenuto il Secondo Congresso Internazionale su “Love and Sex with Robots” in cui il dottor David Levy ha sottolineato la “normalità” di avere nel prossimo futuro un “coniuge robot”, con le caratteristiche (erotiche) che ogni marito o moglie desidera.

La notizia è triste, ma non nuova. In nome del “love is love”, di sesso tra umani e robot avevamo già parlato in questo articolo.  Non solo: avevamo già detto della proposta di Mady Delvaux di dare una sorta di personalità giuridica ai robot, avanzata nientepopodimenoche al Parlamento Europeo.

Nonostante le follie fin qui elencate, non avremmo mai creduto di dover dare la notizia che tale proposta di risoluzione è stata approvata dalla Commissione del Parlamento Europeo sugli Affari Legali. Il testo si può leggere qui.

Si propone la concessione di uno status giuridico per i robot, qualificandoli come “persone elettroniche”.
Il progetto, approvato con 17 voti a favore, due contrari e due astensioni, intende avviare al Parlamento la discussione sul se e come assegnare diritti e obblighi specifici ai robot, tra cui quello di risarcire eventuali danni arrecati.

Gli sviluppatori di intelligenza artificiale dovranno garantire che le loro creazioni seguano una serie di regole che vietano loro di danneggiare l’essere umano o permettere che un essere umano riceva danno attraverso la loro inazione: insomma, le vecchie regole dei romanzi di fantascienza di Azimov. Va progettato anche un meccanismo in grado di spegnere facilmente eventuali “robot canaglie”.

Nel nostro codice civile, dal 1942, si prevede la responsabilità solidale del proprietario e del conducente dei veicoli (art. 2054): sarebbe stato più ragionevole estendere una analoga fattispecie ai robot, magari aggiungendo anche la responsabilità del costruttore e del programmatore. Ma evidentemente a una certa mentalità tendenzialmente e sottilmente transumanista questo non basta.

La Delvaux ha anche detto,  in un’intervista che potete vedere qui, che un robot non potrà mai sostituire completamente l’essere umano, perché un robot non è un essere umano e non sarà mai umano. «Un robot può mostrare empatia ma non può provare empatia», e ha anche proposto che i progettisti si impegnino a non fare  robot che sembrino emotivamente umani: «Nessuno dovrebbe mai pensare che un robot è un essere umano, che ama o che è triste». E questo è ragionevole. L’intento della parlamentare europea – fosse solo questo – non sarebbe così assurdo come potrebbe apparire a prima vista. Ma la mentalità transumanista, in fondo si sposa con il materialismo e l’utilitarismo più radicale: un mix quanto mai gradito alla “cultura della morte”.

Il problema, infatti, è che se da un lato ci avviamo verso il riconoscimento dei diritti e dei doveri dei robot, verso il riconoscimento della “personalità elettronica”, contemporaneamente stiamo da decenni cercando di negare la dignità di persona al concepito, al malato (si dice che è un “vegetale”, no? Così fa meno impressione il giorno che lo facciamo fuori...), e qualcuno già la nega ai neonati e ai bambini piccoli. Del resto,  da tempo una filosofa di prestigio come Mary Ann Warren (1946-2010), professoressa alla San Francisco State University scriveva: «It remains true that, on my view, neither abortion nor the killing of newborns is obviously a form of murder» [“On the Moral and Legal Status of Abortion” da Biomedical Ethics, 4ª ed., T.A. Mappes e D DeGrazia, eds (New York: McGraw-Hill, Inc., 1996)], che vuol dire che secondo lei né l’aborto né l’infanticidio sono una forma di omicidio.

Evidentemente, il bambino o il malato non servono – in termini utilitaristici, mentre il robot serve. È utile. Magari anche a far sesso-come-mi-pare-a-me.

Quindi il futuro è riconoscere la dignità di persona solo a chi “serve a qualcosa”? E in che termini si misurerà l’utilità di una persona? E chi avrà il diritto e il potere di misurarla?

Francesca Romana Poleggi​


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