18/01/2019

Giuramento “contro la violenza” a scuola. Un invito a riflettere

Abbiamo scritto, pochi giorni fa, del Liceo classico Pilo Albertelli di Roma che aveva programmato per l’11 gennaio un giuramento sui generis “contro ogni forma di violenza”. L’evento, ci informa Orizzonte Scuola, è stato preceduto da una “performance artistica”, organizzata da Marina Rapone, con «un estemporaneo percorso tra quadri viventi in cui l’autrice trasforma la scuola, dove studiarono tra l’altro Enrico Fermi, Carlo Cassola ed Ettore Scola, in un autentico museo e ogni classe in un quadro tra emozioni, sogni, angosce e speranze del mondo degli adolescenti».

Il Movimento 5 Stelle «plaude all’iniziativa» dalle commissioni cultura del Parlamento, per la promozione di «valori profondi come la solidarietà e l’inclusione sociale»; lo stesso M5s, notiamo en passant, il cui consigliere comunale a Verona ha giudicato «offensivo» l’impegno per la vita proposto dalla ormai celebre mozione Zelger. Ma in questa sede non ci interessa polemizzare con la politica, bensì offrire una chiave di lettura diversa dell’evento in questione, che di certo non si troverà facilmente in giro per la rete.

Quanti hanno dato la notizia di tale “giuramento” hanno anche avuto, prevedibilmente, parecchie esternazioni positive, lodi e complimenti per questi giovani che desiderano impegnarsi, sin dai primi anni del loro vivere sociale, contro ogni forma di violenza. Tuttavia, come riportano, anche in questo caso, tutte le testate che ne hanno scritto, nell’elenco delle “violenze” o “crudeltà” rientrano anche i concetti, molto in voga, di “omofobia” e “discriminazione”. Ora, non stupisce che in una società pervasa dal buonismo, che confonde il “dare a ciascuno il suo” con il “dare a tutti lo stesso”, i ragazzi siano le prime vittime di una cultura omo-logante. Per carità, nessuno qui nega la necessità di contrastare qualsiasi mancanza di rispetto verso qualsiasi persona; e in questo senso impegnarsi contro la violenza, soprattutto a scuola, è un’ottima cosa. Il problema è un altro: i giovani d’oggi sono abituati a pensare alla violenza includendovi una serie di comportamenti che violenti non sono, come il chiamare le cose con il loro nome, per dirne una.

Così, ad esempio, affermare che l’omosessualità è contro natura diventa una colpa di omofobia, dunque di violenza, nei confronti di una categoria di persone che subiscono l’incomprensione di una società ancora in larga parte retrograda e bigotta. Il fatto che due gay, per “concepire” un figlio, debbano affittare l’utero di una donna, non costituisce, evidentemente, un dato abbastanza chiaro. Inoltre, nell’argomentare sull’innaturalità del rapporto omosessuale, nessun sostenitore dell’ordine naturale, di norma, è preda di un attacco di paura incontrollata e irrazionale (qual è appunto la fobia). L’omosessualismo, invece, inocula il messaggio, soprattutto nelle giovani menti, che l’uso della ragione finalizzato a mettere in dubbio la vulgata pro gay e pro gender, sia segno di una “fobia” anche solo latente, richiamando così, già a livello semantico, il concetto di “patologico”, ovvero di un male interiore che bisogna correggere.

Difatti le nuove generazioni stanno crescendo col mantra della lotta all’omofobia tanto che, se a un ragazzo venisse in mente, così, per caso, di porsi qualche domanda in più sull’argomento, subito il grillo parlante gay-friendly prenderebbe il sopravvento per mettere a tacere ogni sussulto della ragione. Infine “omofobia”, “discriminazione” e “bullismo” sono tre concetti diversi dei quali: il primo nasconde il nulla cosmico, il secondo ha significati diversi a seconda dell’uso che se ne fa (dicesi “termine equivoco”), e solo il terzo ha un’accezione univoca; tuttavia li ritroviamo ormai sempre a braccetto, come fossero gemelli siamesi, in un tentativo omo-logante (il trattino è d’obbligo) del linguaggio e quindi, inevitabilmente, del pensiero.

«Chi controlla il linguaggio, controlla le cose» ha detto qualcuno. Un invito a riflettere...

Vincenzo Gubitosi

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