11/01/2016

Fecondazione artificiale - "Insistere conviene" (a chi?)

Sul sito della CBC  si parla dei risultati di un nuovo studio pubblicato sul Journal of Medicine Association alla fine del 2015 sulla fecondazione artificiale.

Esso conclude che “quasi i due terzi delle donne sottoposte a fecondazione in vitro riescono ad avere un figlio al sesto tentativo.”

Il New York Times quindi proclama in un titolo altisonante un concetto che tradotto potrebbe risuonare così: “Nella fecondazione in vitro, la perseveranza paga”.

E’ il caso, però, di chiarire chi paga e chi incassa, in tutta la vicenda.

Sappiamo bene che il guadagno, lauto e sicuro, è solo quello delle cliniche per la fertilità e le case farmaceutiche. Il “guadagno” delle coppie che riescono ad ottenere un figlio sarà certo incalcolabile, ma è solo eventuale: il tasso globale di insuccesso è dell’80%. Tant’è che per far crescere le possibilità bisogna fare 6 tentativi!

Ma c’è di più del semplice denaro in gioco, dice giustamente il New York Times.

Ci sono i rischi per la salute fisica ed emotiva della donna e l’uomo coinvolti da prendere in considerazione. Le donne devono sottoporsi ai lunghi e pericolosi bombardamenti ormonali, i cui effetti collaterali a lungo termine non sono neanche del tutto noti.

La sofferenza del sottoporsi più volte all’iperstimolazione ovarica senza ottenere nulla di più che gli effetti indesiderati a breve (per niente piacevoli: aumento di peso, dolori addominali, squilibri ormonali...) è certamente maggiore per la donna, ma non è trascurabile neanche quella dell’uomo, e in genere, la sofferenza di coppia.

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Cellule staminali: per fare esperimenti che finora non hanno dato alcun risultato, gli embrioni si possono anche fare a fettine.

Bisogna riconoscere all’articolo del New York Times che si fa promotore di una “buona pratica” per gli operatori sanitari: mettere l’interesse psicofisico dei clienti prima dell’interesse economico della clinica al procedere a più cicli di fecondazione artificiale a tutti i costi.

Ammesso che qualcuna delle imprese in questione, finora rivelatesi smaccatamente votate al profitto più che a qualsiasi altra cosa,  accolga l’appello, ne saremo lieti.

Ci lasciano molto perplessi due questioni:

  • che non ci sia alcun accenno di considerazione per la salute psicofisica di quelle donne che spesso ingannate, oppure nel bisogno, vendono i loro ovociti, sottoponendosi alla iperstimolazione per denaro (anzi: “rimborso spese”. Si chiamano “donatrici”...);
  • che non siano proprio presi in considerazione tutti quei ragazzini in stato embrionale (una decina almeno per ogni tentativo) che vengono assemblati su un vetrino (anziché nel caldo del grembo materno), a seguito di un atto masturbatorio del padre (anziché dell’amplesso tra lui e la madre); che vengono selezionati, scartati, congelati e scongelati (e molti dormono un sonno infinito nell’azoto liquido per anni, prima di essere buttati via).

Di questi piccoletti non si occupa nessuno. Sono tanto piccoli che non si vedono ad occhio nudo. Non parlano, non strillano, non protestano. Per questo si possono trattare come cose. Anzi, peggio delle cose: quando abbiamo per le mani degli oggetti rari, dei pezzi unici, diamo loro parecchia cura e li consideriamo di valore. Li mettiamo in cassaforte o nei musei. Li ammiriamo, facciamo di tutto perché non si rovinino.

Quei piccoletti, pure, sono pezzi unici e irripetibili. Ciascuno di loro è una persona che contiene in quelle poche cellule tutta una vita: caratteri fisici, attitudini, temperamento, capacità di fare, fantasia per inventare, cuore per amare. E proprio quel padre e quella madre che dovrebbero essere i primi custodi del fiorire di quelle vite non li tengono in alcuna considerazione.

 Francesca Romana Poleggi

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