01/08/2018

Fecondazione artificiale: 40 anni dopo, c’è da festeggiare?

Era il 25 luglio 1978 quando all’Oldham General Hospital di Manchester nacque Louise Brown, la prima “figlia” della fecondazione artificiale (nella forma della FIVET: fecondazione in vitro con embryo tranfer) a vedere la luce.

Nelle ultime ore i media stanno celebrando questo quarantesimo compleanno come anniversario non tanto di una nascita, quanto di un successo della scienza. Eppure, ci chiediamo: davvero è un “successo” da celebrare, un trionfo della tecnica sulla vita umana tale da elevare la medesima tecnica a origine della vita? «Il folle non è chi ha perso la ragione, ma colui che ha perso tutto salvo la ragione». Così scriveva Chesterton agli inizi del Novecento, profetizzando l’era della tecnocrazia nella quale tutti noi viviamo e che, prim’ancora della politica, investe la bioetica. Offriamo solo alcuni spunti di riflessione, ricordando alcune di quelle cose che oggi sono taciute da molti.

Nella relazione annuale del Ministero della Salute sull’applicazione della L. 40/2004 sulla procreazione assistita, relativa all’anno 2016, si riporta un dato inquietante: nell’arco di una decina d’anni il numero degli embrioni (ovvero esseri umani) morti per mezzo della fecondazione artificiale, nella forma della FIVET, è passato da circa 80.000 a più di 165.000. Quelli crioconservati si aggirano intorno ai 40.000. Non si tratta di incidenti di percorso, è la tecnica stessa che implica questo sacrificio affinché le coppie interessate possano (egoisticamente) avere il loro bambino. Tale è, infatti, la percentuale di insuccessi della FIVET, che bisogna produrre embrioni in soprannumero per sperare in una gravidanza (al 2016 le coppie con figli in braccio sono solamente il 16,30%, stando alla relazione citata). Senza considerare che la donna, dopo l’assemblaggio dell’embrione in laboratorio, può sempre rifiutare l’impianto nell’utero.

Alla mala sorte degli embrioni, uccisi o imprigionati nell’azoto, si aggiungono i problemi legati alla salute dei bambini (perché concepiti in provetta, fuori del grembo materno), nonché dalle donne stesse. Il Professor Giuseppe Noia, ginecologo, primario dell’Hospice Perinatale e docente di medicina prenatale al policlinico Gemelli, è uno degli esperti che con più costanza cerca da tempo di contrastare il silenzio mediatico sul tema.Per i bambini aumenta il rischio di parto prematuro e in generale si riscontra maggior difficoltà di sviluppo del feto, mentre dopo la nascita (secondo alcune ricerche condotte finora) si riscontrano più facilmente problemi neurologici e muscolari. Quanto alle donne, dopo l’iperstimolazione ovarica cui sono sottoposte per aumentare la raccolta di ovuli, il 10% ha complicazioni immediate e più del 10% diviene sterile. Anche in donne giovani e in ottima salute aumenta il rischio di gravidanze extrauterine, aborti, emorragie post partum, placenta ritenuta…

Un altro aspetto rilevante è poi quello del danno che si porta all’unità della coppia nell’accettare la spersonalizzazione dell’atto procreativo, sostituito da un processo tecnologico; e ancor di più nella fecondazione eterologa (dove uno dei gameti appartiene a un terzo), in seguito alla quale possono sorgere non poche reazioni psicologiche (gelosia, complesso d’inferiorità) da parte del genitore che, non avendo “partecipato” biologicamente, non ha contribuito al concepimento del figlio. Il bambino, in tutto ciò, si ritrova con tre genitori (nel migliore dei casi), uno dei quali sconosciuto e probabilmente, in quanto venditore di gameti, padre di chissà quanti altri figli. Anche senza poter approfondire tutte le questioni che si aprono – e sono tante – appare da subito evidente la galassia di pericoli e sofferenze che una simile procedura comporta.

Fin qui, dunque, i danni derivanti dalla procedura. Quasi nessuno però si sofferma sull’errore che è all’origine della fecondazione artificiale in quanto tale: il “diritto” alla genitorialità. Può un desiderio, sia pure legittimo, per ciò stesso essere elevato a diritto? Il bambino, prima di essere figlio, è persona e dunque soggetto: non può diventare oggetto di diritti. E questo bisogna tenerlo presente anche in relazione alla sua chiamata all’esistenza: egli va generato, e non fabbricato; accolto, e non progettato.

Vincenzo Gubitosi

Fonte: La Verità, 25.07.2018

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