29/01/2021 di Manuela Antonacci

Caregiver Familiari, Mariella Tarquini: «Abbiamo bisogno di un vero riconoscimento dallo Stato»

Ultimamente Caregiver Familiari Comma 255, un gruppo spontaneo di cittadini, in un comunicato stampa, ha denunciato politiche insufficienti a tutela dei disabili e di chi li assiste. In particolare, nel documento, si esprime la delusione per una legge richiesta e che non arriva mai, che inquadri una volta per tutte, la figura del caregiver familiare con un fondo destinato alla valorizzazione di questo ruolo. Ne abbiamo parlato con Mariella Tarquini, del comitato promotore.

 

A che punto siamo, secondo lei, nel riconoscimento del ruolo dei caregiver familiare agli occhi dello stato?

«Pro Vita & Famiglia ci ha accompagnato in questo percorso, partecipando anche alla manifestazione che abbiamo fatto il 22 luglio davanti alla camera dei deputati. Era l’ultimo giorno per il deposito degli emendamenti al decreto 1461 che essenzialmente, rende esecutiva la figura del caregiver e gli riconosce una serie di diritti, il caregiver era stato riconosciuto due anni prima con l’articolo 255 da cui prendiamo il nome. Il nostro ruolo qual è? Quello di semplici genitori, fratelli sorelle, mogli o mariti che assistono in maniera continuativa i loro congiunti portatori di disabilità, impossibilitati a svolgere autonomamente quelli che sono tutti gli atti della vita quotidiana. Perché stiamo portando avanti questa battaglia? Perché sostanzialmente tutti sentono pronunciare la parola caregiver, ma pochi si rendono conto di ciò a cui facciamo riferimento. Il caregiver è una persona scissa e dissociata dal disabile di cui si prende cura con amore e abnegazione, ma il caregiver difficilmente è riconosciuto come persona a se stante. Stiamo parlando di una persona che spesso deve rinunciare alla sua individualità perché il suo impegno è totalizzante, assorbente h24. Anche quando i nostri figli sono a scuola è demandato a noi un compito di organizzazione di relazioni, di rapporti, di quella che può essere la loro vita, la loro quotidianità, le loro risorse, le loro terapie, è un qualcosa di diverso da un badante per esempio. E’ un qualcuno che esprime con una voce, che dà voce, a chi non ha voce, è un proseguimento all’accesso a tutti i diritti di vita dei nostri congiunti. Finché non si addiverrà al riconoscimento normativo di questa nostra figura nei fatti, per noi diventa impossibile andare a costruire il loro domani. Non c’è una coscienza sociale che porti a riconoscere questa individualità del caregiver, rispetto al congiunto di cui si prende cura. Si tende troppo spesso a confondere quelli che sono i servizi di assistenza al disabile con quella che è la nostra figura».

Nel comunicato si legge anche che si sta prendendo una pessima piega: “Una manciata di contributi figurativi e la necessità di dimostrare all'INPS il numero delle ore che dedichiamo alla nostra "attività di caregiver". Ore!? Non si è ancora compreso che non si possono contare le ore quando il sacrificio implica tutta la propria esistenza e la totale rinuncia all'individualità?” Ancora una volta il Parlamento italiano sta scegliendo di creare una nuova categoria di cittadini assoggettati al sistema dei servizi, contribuendo e determinando il loro vero abbandono. Quindi lo stato sta cercando di lavarsi la coscienza, con contributi simbolici che non cambiano la situazione delle famiglie e non permettono loro di riorganizzarsi autonomamente?

«Quello che noi contestiamo e contesteremo sempre è che non si può dare un supporto a noi, immaginando di andare a fare a noi un corso di formazione, immaginando di potenziare ad esempio, nel fascicolo unificato, in cui si parla nel nostro comunicato e che in questi giorni è in funzione consultiva alla V commissione del Senato, una nostra figura per cui sono previsti una serie di interventi giuridici ed emendamenti che prevedono, come riconoscimento al nostro ruolo, al massimo 3 anni di contributi figurativi, assimilabili a quelli di un collaboratore domestico. Ci sono addirittura scritte cose assurde: parlando un po’ a braccio, secondo cui dovrebbe essere un nostro congiunto a dichiarare di aver scelto noi come suoi caregiver. Adesso lei immagini come si possa andare ad acquisire una volontarietà da parte di un non collaborante, ad esempio. E’ prevista una ipotetica quantificazione di ore da assegnare al nostro operato e da giustificare in sede INPS. Qui siamo proprio da un’altra parte. La nostra figura ha invece bisogno di un riconoscimento reale ed efficace che porti ad affermare chi siamo e cosa facciamo. Ci si è ricordati di tutti, in questi mesi, ma quelli che erano in casa, in casa sono rimasti. Peccato che ai nostri congiunti sono stati negati tutti quelli che erano i servizi a cui potevano avere accesso. Noi ci siamo trasformati in fisioterapisti, anche in logopedisti online. Può immaginare cosa può voler dire tutto ciò. Sono appena tre anni massimo di contributi figurativi, non esiste una forma di sussidio reale che ci permetta nemmeno di organizzarci. Teniamo presente che molti caregiver sono stati costretti a rinunciare al loro posto di lavoro per assistere il congiunto.  Sono valutazioni di cui va tenuto conto».

Durante la pandemia, come si è evoluta la vostra situazione di cargiver familiari?

«Noi ci siamo trovati improvvisamente chiusi in casa, con questi nostri congiunti che, senza quel dovuto supporto che avevano dalle figure professionali preposte, hanno necessariamente subito una recessione. Abbiamo dovuto far fronte alle paure che tutti avevano, alla praticità di dover provvedere a quello che potevamo. Abbiamo dovuto persino far fronte a terapie online. Questo ha comportato dall’altra parte, in noi, un dolore ancor più grande perché non esisteva un percorso dedicato: immagini un’eventualità di contagio nostra o di un nostro congiunto, a chi avremmo affidato il congiunto di cui ci prendiamo normalmente cura?».

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