30/03/2020

Capire, formarsi e insegnare la Bioetica. Il nuovo libro di Giorgia Brambilla

“Riscoprire la Bioetica. Capire, formarsi, insegnare”. È questo il titolo del nuovo lavoro della professoressa Giorgia Brambilla, intervistata da Pro Vita & Famiglia proprio sulle tematiche del suo ultimo libro.

 

Professoressa, nel primo capitolo, Lei dichiara che uno degli scopi di questo manuale è quello di definire lo statuto epistemologico della Bioetica, ovvero i suoi rapporti e la sua attinenza con altri ambiti di ricerca. A proposito di questo, Le sembra che si possa operare un raffronto efficace se si paragona quello che è successo alla pedagogia con quello che è accaduto o rischia in alcuni casi di accadere alla bioetica. Ovvero, come la pedagogia, alla ricerca di una propria autonomia scientifica, ha ridefinito i propri rapporti con la filosofia, cercando di smarcarsi da essa, ottenendo però scarsi risultati, arrivando, cioè, in molti casi a proporre un modello di sapere pedagogico puramente empirico sperimentale; non sta accadendo proprio questo anche alla bioetica, nel momento in cui emerge la pretesa di separarla dalla sua vocazione filosofica di fondo che mira alla ricerca della verità sull’essere umano?

«Ciò che qualifica la ragione è la ricerca della verità, che si configura essenzialmente come domanda di senso e che costituisce la “stoffa” di cui l’essere umano è fatto: il desiderio e la nostalgia della verità albergano nel profondo del suo cuore. In base all’identità della ragione, aperta alla verità o limitata e monca, scaturiscono posizioni in Bioetica che potremmo chiamare deboli cioè ancorate al pregiudizio scettico e “sull’orlo dell’abisso nichilista” – per dirlo con le parole di Engelhardt – o forti, in cui la norma etica razionale solidità e in cui la persona umana rappresenta il valore fondamentale. Le questioni di cui si occupa la Bioetica fanno riferimento a delle esperienze limite – come scrive Joseph Ratzinger – non solo nel senso che esse riguardano gli estremi della vita dell’uomo: il suo inizio e la sua fine, ma anche e soprattutto nel senso che «esse riguardano sempre un uomo (lo scienziato ricercatore o il medico) posto davanti a un altro uomo che egli è tentato di non considerare e di non trattare come una persona» (J. Ratzinger, La Bioetica nella prospettiva cristiana). Se la Bioetica “chiude i rapporti” con la vocazione più profonda della filosofia, ovvero la ricerca della verità, diventa inevitabilmente miope di fronte al riconoscimento del valore della persona umana. Solo che riconoscere le persone come persone è il primo e fondamentale dovere; anzi, è il fondamento radicale di ogni altro successivo dovere. Il nostro compito, in Bioetica, non è infatti quello di definire la persona – questo non spetta neanche al diritto – ma di riconoscerla. E per farlo, bisogna prima di tutto superare il riduzionismo del concetto di ragione verificatosi nell’ambito del razionalismo illuministico e del positivismo scientista. Del resto, una Bioetica senza verità non può che essere irragionevole e priva di fondamento. Ma se è priva di fondamento, su cosa si fonderà la stessa difesa della vita umana, il no all’aborto o all’eutanasia, il rifiuto della manipolazione genetica o della fecondazione artificiale?».

A proposito di pedagogia e bioetica, leggendo il suo manuale, Lei apre un excursus sulla “pedabioetica”, possiamo soffermarci un attimo sulla vocazione “educativa” della bioetica. Lei, fa riferimento, in particolare alla pedabioetica di Russo.

«La prospettiva del prof. Giovanni Russo ha sempre destato la mia curiosità; ora, dopo quindici anni di insegnamento universitario di questa disciplina, capisco ancora meglio la valenza educativa della Bioetica che lui delinea. I miei studenti sono per lo più educatori (insegnanti, sacerdoti, catechisti, religiose) o futuri educatori, come gli studenti che si preparano a diventare insegnanti di religione nell’Istituto Superiore di Scienze Religiose dell’Ateneo Pontificio “Regina Apostolorum” in cui sono coordinatrice della Laurea magistrale ad indirizzo pedagogico-didattico; questo mi ha dato modo di toccare con mano, tramite la loro esperienza, quanto bisogno di Bioetica ci sia oggi e in particolare di una "formazione dei formatori" su questi temi. Russo, nel 1993 introduceva il neologismo “pedabioetica” per giustificare un campo di ricerca all’interno della Bioetica attento ai problemi educativi e più esattamente alla formazione bioetica della società. La formazione ha come obiettivo quello di costruire uno stile di vita conforme alla verità dell'essere umano. A questo si collega evidentemente l’educazione alle virtù, a cui Russo fa riferimento e a me molto cara: l'uomo virtuoso impara a distinguere il bene dal male e ad esercitarlo perché le virtù lo rendono “connaturale” al bene - così come illustra l’idea tomista. Un modello questo, se ci pensiamo, diametralmente opposto a quello, ad esempio, liberal-radicale, dove, invece, “l’albero del bene e del male” viene sradicato ed è il principio di autonomia a fornire la grammatica minima per il linguaggio morale: non ha importanza che un atto sia o meno moralmente giusto; ciò che conta è che il soggetto sia libero di fare ciò che egli crede sia giusto per sé, senza ledere gli altri. Formare l'uomo secondo la verità della sua collocazione storica, secondo le leggi intrinseche della sua natura, invece, è particolarmente importante nell'ambito della Bioetica: le nuove potenzialità innovative hanno innestato un nuovo modo di concepire la posizione storica dell'uomo nel cosmo e se non esiste una verità circa l'identità dell'uomo e delle leggi della sua natura ogni manipolazione è possibile. La tecnologia da fatto puramente strumentale si è trasformata ormai in cultura, con una particolare connotazione etica il cui assunto fondamentale è la manipolabilità dell'essere umano. Questo ci aiuta a capire che gli “slogan” – che puntano a fare presa soprattutto sul piano emotivo – possono essere utili, ma non sufficienti. Bisogna spendersi sul piano della formazione. Il primo servizio che desidera offrire il Manuale è proprio questo».

Nel suo libro c’è anche un contributo di Pierluigi Pavone che fa riferimento alla matrice antropologica della questione bioetica. Pavone scrive: “Sono del parere che lo statuto della Bioetica presupponga sempre una matrice antropologica: persino la prospettiva relativista o pragmatica, nel momento in cui si determina l’arbitrio soggettivista o utilitarista a criterio di scelta, esprimono una “normatività antropologica”. E poi fa riferimento a Platone, secondo cui non esiste nessuna visione politica senza una visione antropologica. Una domanda da un milione di dollari, che non ha la pretesa di risolvere la questione, con una sola risposta: pensando anche al gender e alla “rivoluzione antropologica” che intende operare, è dunque necessario che la Bioetica torni un po’ alla radice di tutte le questioni che affronta (nel libro si parla di tutti i nostri temi caldi: aborto, eutanasia ecc.) contribuendo a ricostruire o a riscoprire un’antropologia che non sia auto centrata e se sì, in che modo?

«Prima di tutto, è bene chiarire che nessuno stato, neppure quello laico, prescinde da una precisa visione antropologica. Come ogni tipo di comunità politica (principio platonico). Per principio platonico, si intende infatti, il principio secondo cui ogni dottrina politica ed economica dipende sempre da una precisa visione dell'uomo. Vale a dire che l'assetto istituzionale, giuridico sociale è il riflesso, la soluzione ad una precisa questione antropologica. La visione antropologica, dunque, è alla base della Bioetica e di ogni considerazione medica o morale, perché prima di tutto, la visione antropologica è "il tronco", per così dire, da cui si sviluppa la ramificazione politica e culturale in genere. Questo determina il fatto oggettivo che - al di là delle personali considerazioni - la teoria gender o la legittimità del suicidio assistito, ad esempio, riflettono necessariamente e coerentemente una visione dell'uomo molto precisa; quella, secondo cui l'essenza dell'uomo non è determinata, ma da auto-plasmare liberamente e illimitatamente. Il gender recupera e "contestualizza", per così dire, questa teoria sul piano sessuale, cioè relativamente alla creazione della propria identità sessuale, per mezzo della fluida percezione di sé o delle molteplici esperienze. Allo stesso modo, la legittimazione al suicidio assistito risponde in primo luogo alla questione giuridica della "disponibilità" del diritto alla vita (cosa esclusa nel liberalismo classico di Locke). A sua volta la questione giuridica risponde a quella antropologica: il giusnaturalismo parte dal presupposto che l'uomo - in totale e immacolata autonomia - scopre di avere dei diritti naturali, per evidenza razionale, prima dell'esistenza di un potere sovrano e senza bisogno di Dio. Ad un livello ulteriore, questa stessa visione antropologica è inficiata dalla tesi razzista secondo cui i diritti naturali sono di tutti gli uomini. Ma non non tutti gli uomini... sono effettivamente uomini! Alcuni sono inferiori di razza: quindi su di loro non si applicano i diritti. Sarà il potere sovrano - nato da questa antropologia - a "valutare" l'umanità o meno del singolo cittadino. Esattamente come oggi si sostituisce il razzismo moderno con l’eugenetica contemporanea. Quindi, la Bioetica che vuole costruire realmente una antropologia non auto-centrata (cioè gnostica) deve essere in grado di risalire ai presupposti, mostrare la simmetria tra visione religiosa e visione dell'uomo, analizzare la dipendenza politica e quindi l'origine delle leggi e mostrare quanto la stessa società laica non sia affatto immune o neutrale come spesso si vuole superficialmente far credere».

Ricollegandoci alla domanda precedente, i frequenti riferimenti al Magistero, nel suo libro, che potrebbero far storcere il naso ad alcuni, ingenerando l’equivoco che sia un manuale per soli fruitori cattolici, intendono forse contribuire a fornire una visione antropologica alla luce del suo rapporto con l’Alterità?

In Bioetica, la ragione ha un ruolo molteplice, in relazione ai molteplici campi di indagine e di giudizio che la riguardano. La fede con la sua offerta di senso intende interagire con la ragione in questo ambito e "provocarla" come domanda sul senso ultimo della vita umana e sul valore della sua esistenza. Quando l’occhio osserva gli oggetti attraverso il microscopio non perde la sua importanza né la sua funzione. In altre parole, è così che si dà alla ragione il suo sviluppo più pieno; la fede è un dono per la ragione, che perfecit non destruit naturam. Talvolta, si può rischiare, pur essendo animati da buoni propositi, di impostare le proprie attività pro life creando piattaforme esclusivamente razionali, basate su di una fiducia socratica secondo cui all’uomo sarebbe sufficiente l’evidenza del bene descritto dalla ragione perché egli vi aderisca direttamente e senza ostacoli e in cui il dato di fede è ritenuto un fattore da escludere per riuscire a raggiungere i “lontani”. Questo però, alla lunga, si rivela un vicolo cieco: oggi è ancora più lampante il fatto che un’etica costruita alla luce della sola ragione sarà in grado soltanto di stabilire dei limiti approssimativi all’oggettivazione dell’altro che alla fine purtroppo risulterà inevitabile. Non dobbiamo cadere in un personalismo “terreno”, privo di basi biologiche e soprattutto metafisiche; sono proprio queste, invece, che ci aiutano a scoprire della persona la sua origine creaturale e ci permettono di configurare la sua dignità in relazione all’imago Dei e in rapporto alla spiritualità. La questione alla radice delle problematiche bioetiche è, infatti, quella di senso; e forse è proprio per sfuggire a tale angosciante domanda che l’uomo cerca di assicurarsi un controllo completo sulla vita attraverso la pretesa di assoluta libertà illudendosi di avere potere su di essa, ricalcando l’antico sogno di autofabbricarsi. Come afferma Evangelium Vitae al n. 52, «la scelta incondizionata a favore della vita raggiunge in pienezza il suo significato religioso e morale quando scaturisce, viene plasmata ed è alimentata dalla fede in Cristo. Nulla aiuta ad affrontare positivamente il conflitto tra la morte e la vita, nel quale siamo immersi, come la fede nel Figlio di Dio che si è fatto uomo ed è venuto tra gli uomini “perché abbiano la vita e l'abbiano in abbondanza” (Gv 10,10)».

 

di Manuela Antonacci

 

 

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