31/01/2020

Bimbi come cavie, donne come oggetti: è l’industria della fertilità

Dei ricercatori avrebbero pagato decide di donne con 1400 dollari ciascuna, per ottenere la loro collaborazione in uno studio, condotto in Messico in un ospedale vicino a Puerto Vallarta, leggiamo in un articolo di National Review.

Ecco a cosa si sarebbero dovute sottoporre le donne: iperstimolazione ovarica e inseminazione artificiale, per ottenere embrioni da esaminare. Lo studio avrebbe dimostrato che tali embrioni sono sani anche più di quelli “prodotti” con fecondazione artificiale. A quest’ultima pratica, infine, sarebbero stati destinati alcuni degli embrioni sopravvissuti alla ricerca.

Letta in questi termini e distrattamente, la notizia potrebbe non suscitare il minimo interesse o magari potrebbe attirare persino il plauso dei lettori nei confronti dei “progressi” della ricerca scientifica. Ma ciò che si è consumato è ben più grave di quel che sembra. Gli embrioni sono persone, è la scienza stessa ad affermarlo. Se nella pratica della fecondazione artificiale, fra il congelamento e l’impianto in utero, sono tantissimi gli embrioni che muoiono (e anche dopo non sono fuori pericolo), quanti più embrioni potrebbero essere morti in uno studio come questo?

Un simile “esperimento” ha “prodotto” persone (come fossero oggetti) semplicemente al fine di studiarle, anche a costo di mettere a rischio la loro vita. Possiamo definirlo un trattamento umano?

E per quanto riguarda il rispetto della dignità della donna? Ricordiamo che «l'iperstimolazione ovarica può avere gravi effetti collaterali, portando anche alla morte». Considerando la probabilità che donne povere abbiano accettato l’offerta di quei 1400 dollari per riscattarsi dalla propria condizione di indigenza, ci sarebbe anche la possibilità che, ai vari problemi etici sollevati, ci vada aggiunto lo sfruttamento della povertà.

Insomma, donne e bambini meritano di essere rispettati, piuttosto che asserviti a un business che vede le prime usate come oggetti ed i secondi analizzati come cavie da laboratorio.

 

di Luca Scalise

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