04/08/2016

Adozioni gay: fra autodeterminazione e dipendenza

Torniamo a parlare di adozioni gay, prendendo in esame soprattutto la pretesa genitoriale delle coppie gay e i diritti del bambino.

Se la si guarda in prospettiva, la pretesa al figlio delle coppie omosessuali è solo l’ultima delle “battaglie civili” in nome del principio di autodeterminazione. Al pari della rivendicazione dell’aborto, dell’eutanasia, della fecondazione eterologa, essa è avanzata nel solco di un’incontrastata lotta per l’emancipazione dell’individuo da ogni divieto o vincolo.

Il diritto all’autodeterminazione in dipendenza dalle proprie scelte, giuridicamente e politicamente costituisce ormai qualcosa di inderogabile, che semplicemente non ammette limitazioni. Vale il vecchio slogan femminista delle campagne per l’aborto di quarant’anni fa: «Il corpo è mio e lo gestisco io!», che viene all’uopo declinato nella forma più metafisica: «La vita è mia e ne faccio quello che voglio io». Le adozioni gay costituiscono, appunto, un chiaro esempio di questo pensiero.

Una volta incasellata la richiesta a quell’indirizzo il gioco è fatto, per cui essa sembra non poter essere rifiutata. Quindi: perché vietare ad una madre di esercitare la sovranità sul proprio corpo e sul frutto del proprio corpo? Perché vietare il ricorso alla fecondazione eterologa per una coppia che altrimenti non potrebbe veder soddisfatto il proprio desiderio di genitorialità? Perché vietare il suicidio assistito ad un malato terminale che vuole morire con dignità?

Allo stesso modo anche i teorici del gender, di quella ideologia che in sé importa una svolta antropologica rispetto all’intera storia dell’umanità, sembrano averla vinta. Essi ci vengono a dire che la primordiale e tradizionale distinzione tra uomini e donne basata sul sesso, da cui deriva la trasmissione della vita, non vale più, perché le identità sessuali oramai sono molteplici (omosessuale, bisessuale, transgender, trans, transessuale, intersex, androgino, agender... si superano le sessanta possibilità e c’è chi – per non piangere – ci fa dell’ironia), optabili, interscambiali, non naturali, ma culturali, indotti, se non addirittura imposti.

Sarebbe di per sé un’affermazione che si oppone all’evidenza scientifica e storica, se non implicasse in sé l’ennesima mutazione di gene del principio di autodeterminazione dell’individuo. Anche il sesso si riconduce alla libera volizione. L’individuo lo adotta a seconda del suo orientamento, al di là di ogni costituzione fisica, al di là del dato biologico. Ne scaturisce come corollario pedagogico che assegnare a un bambino il cartellino di maschietto o di femminuccia rappresenta una sorta di indebita intromissione nel libero sviluppo del suo orientamento sessuale, un’induzione esterna, tendenzialmente violenta.

Ne deriva la conseguenza di non poco rilievo che, come una madre deve veder riconosciuta la propria libertà sia di mettere al mondo un bambino sia di disfarsene, così una coppia omosessuale deve veder riconosciuta, al pari di una coppia etero, il diritto di avere figli: le cosiddette adozioni gay, meglio velate sotto la locuzione inglese stepchild adoption. Va da sé che quel figlio, inconcepibile per via naturale, sarà ottenibile tramite fecondazione eterologa, dove l’eterologia implica l’utero in affitto o un prestatore di seme (nel caso di coppie lesbiche). E’ questa la sostanza della stepchild adoption, il diritto riconosciuto al partner in una coppia omo di adottare il figlio biologico del compagno (o della compagna).

Ma in questa specifica situazione il principio di autodeterminazione scricchiola, perché si rende palese una sua ambiguità di fondo, ideologica, che come tutte le ambiguità ideologiche è accompagnata da un’intollerabile violenza.

Il fatto è che quando si decide e si determina, in realtà, si decide e si determina sempre di sé in relazione a qualcun altro, perché ogni nostra libertà si pone e ha da essere come inestricabilmente relata a quella di altri. Così, nella gestazione «l’essere di un’altra persona umana è così strettamente intessuto con l’essere di questa persona, la madre, che per il momento può sussistere assolutamente solo nella sua correlazione corporea con la madre, in un’unità fisica con lei, che tuttavia non elimina il suo essere altro e non permette di porre in discussione il suo essere se stesso» (Joseph Ratzinger). Ma quello che vale per l’inizio della vita vale per tutta la vita, perché il bambino che nascerà non avrà meno bisogno del sostegno della libera volontà affettiva della madre per qualificarsi come persona, oltreché naturalmente per sopravvivere alla fame, alla sete, al freddo etc.. Né l’adulto smetterà di avere bisogno, perché si può essere solo insieme con gli altri, in un’esistenza che ha senso nell’intreccio delle libertà personali e non nella loro esclusione o concorrenza.

Se guardiamo da questa prospettiva, si rende evidente l’ambiguità ideologica di chi fonda l’autodeterminazione di uno sull’indeterminazione di altri, che significa poi la sua soppressione fisica o, peggio ancora, affettiva, giacché gli si negherà il diritto di essere riconosciuto nel suo fondamentale bisogno di avere una mamma ed un papà.

Forse, davvero, ci siamo oggi avventurati molto in là, come scrisse Hans Jonas. Forse dobbiamo «reimparare che esiste un troppo in là» e che esso «comincia con l’integrità dell’immagine dell’uomo che per noi dovrebbe essere inviolabile».

Nel caso delle adozioni gay questo “troppo in là” coincide con il fatto che è necessario tornare riconoscere la relazione eterologa uomo-donna, inizio naturale e sostanziale di ogni persona; un fatto che va oltre ogni camuffamento ideologico e ogni armeggiare tecnologico con i più elementari tasti della vita.

Clemente Sparaco

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