19/01/2021 di Manuela Antonacci

L’ennesima ipocrisia inclusiva. Ecco come è arrivata l’inutile dicitura “Architetta”

Oggi è tanto criticata, analizzata, eletta ad oggetto di dibattiti, discussioni e proposte parlamentari, manifestazioni, celebrazioni ecc. Di cosa stiamo parlando? Della mancanza di parità tra l’uomo e la donna, tanto sbandierata nella nostra società. Così, almeno in Sardegna, si è pensato bene di dare un “taglio netto” al problema.

 come? L’Ordine degli architetti di Cagliari, ha coraggiosamente stabilito, in seguito alla richiesta di una delle sue iscritte, di riconoscere, d’ora in poi, sui timbri delle professioniste la dicitura “architetta”. Questo perché, secondo l’“architetta” Mocci che ne ha fatto richiesta, favorirebbe la formazione di un’identità professionale più consapevole “e che costituisca un primo tassello inscritto all'interno di un più ampio dibattito culturale per la parità di genere. Credo che contribuisca a sviluppare una cultura partecipata dell'uguaglianza in generale e specificatamente nel campo dell'architettura".

Le ha fatto, poi, da eco, la sociologa e linguista Vera Gheno che, in un recente intervento pubblico sul linguaggio di genere, si è affrettata a specificare come il termine “architetta”, in realtà, sia già presente nei dizionari italiani ma da tempo, come accaduto per altri mestieri, “avrebbe ceduto il passo alla versione maschile”. Insomma si esulta perché si inizierebbe a parlare il cosiddetto “linguaggio della parità”. E, in effetti, di parole si tratta, perché non ci risulta che concretamente sia stato fatto granché per aiutare le donne che, nella vita di tutti i giorni, vivono le difficoltà pratiche che le porta a dividersi tra mille mansioni e mille contesti, familiari e non, spesso unicamente sulle loro spalle.

Davvero, declinare un termine al femminile, oltre che al maschile, risolverebbe o allevierebbe la fatica e le difficoltà del genere femminile, nella nostra società o è solo un modo per lavarsi la coscienza ed unirsi al coro dei belati di chi davvero crede che le donne comuni e, non una casta di privilegiate, si accontentino di un linguaggio più “inclusivo” che continuerà, però, a rimanere un bel ricordo solo sulla carta, insieme ai loro diritti e ai loro bisogni?
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