15/01/2020

L’appello alla sinistra italiana per dire NO all’utero in affitto

Fermate l’utero in affitto. O, quanto meno, continuate a tenerlo com’è: illegale. È l’appello che alcune sigle femministe e non solo – da Se non ora quando ad Arcilesbica – hanno rivolto ai leader della sinistra italiana e al capo politico dei 5S, Luigi Di Maio, affinché, sulla scia del virtuoso e recente esempio della sinistra spagnola, s’impegnino «a sostenere e mantenere il divieto di maternità surrogata, nonché a intraprendere tutte le azioni politiche necessarie a ostacolare il ricorso delle nostre concittadine-i a questa pratica all’estero».

Una richiesta accompagnata da sottoscrizioni femminili di peso del mondo della politica e della cultura – da Susanna Tamaro a Marina Terragni, da Livia Turco a Monica Ricci Sargentini –, e di cui è stato in qualche modo ispiratore il giornale Linkiesta, cui va dato il merito di essersi occupato della questione. Quali effetti sortirà questo appello contro la legalizzazione dell’utero in affitto? Difficile ancora dirlo. Quel che è certo è che si tratta, come detto, di una presa di posizione netta, che chiede ai leader progressisti italiani non solo di non legalizzare la maternità surrogata, ma anche di «sostenere la campagna internazionale per l’abolizione universale dell’utero in affitto».

Per la verità, non è la prima volta che Se non ora quando sia Arcilesbica fanno sentire la loro voce su questo versante. Tuttavia, dal momento che il tema è purtroppo sempre attuale – e a poco, ahinoi, son serviti gli appelli precedenti -, ben venga questa richiesta a Di Maio e al Pd che, c’è da augurarsi, possa avviare un cambiamento su detta frontiera antropologica fondamentale. Già, perché sull’utero in affitto non si gioca semplicemente il favore o la contrarietà ad «una pratica». No, in ballo c’è molto di più.

C’è anzitutto la dignità del figlio, il suo diritto cioè ad essere trattato – da principio - come una persona umana e non come un oggetto di compravendita. Un nodo, questo, decisivo. Non è infatti un caso che, molte volte, i sostenitori della cosiddetta maternità surrogata si attardino a discettare di questioni quali il «diritto» alla genitorialità, la «libertà» della donna, eccetera. Ma sul figlio, puntualmente, non una parola. Come mai? Forse perché solo ricordare che non c’è utero in affitto senza acquisto di un neonato sarebbe urtante? Vale la pena chiederselo.

In secondo luogo, che l’utero in affitto sia una frontiera decisiva è dimostrato dal fatto che una simile pratica commercializza non tanto e non solo – come fosse poco – il figlio, ma pure la maternità; ne consegue come la donna stessa, nella sua vocazione più alta, quella materna, venga sottomessa a logiche di mercato che in questo modo andrebbero a profanare perfino l’ambito più ancestrale della vita di ogni persona: quello del suo legame generativo con la madre.

Un legame, quello tra madre e figlio, che oltre a sfuggire naturalmente una dimensione economica, ne sta agli antipodi. Il legame prima intrauterino e poi familiare tra una mamma e il suo bambino esprime infatti la logica della Gratuità e del Dono, ingredienti totalmente incompatibili con qualsivoglia transazione di ordine economico; né va sottaciuto, per concludere, come l’utero in affitto, se da una parte devasta la figura materna – frazionandola sul versante genetico, quello biologico e quello sociale -, dall’altra azzera completamente la paternità, ridotta a  «spermicificio».

Nella richiesta delle sigle femministe italiane e a Di Maio e al Pd si gioca insomma una partita antropologica fondamentale, un vero e proprio epocale punto di non ritorno. Che, c’è da sperare, venga pienamente colto come tale, in tutte le sue profondissime e decisive implicazioni. Non si tratta, insomma, di dire «no» all’utero in affitto e alla barbarie. Non solo. Si tratta, anzitutto, di dire «sì» alla civiltà.

 

di Giuliano Guzzo

 

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