08/01/2014

L’aborto in Texas e il destino non scritto delle culture war

Il trend legale sfida l’ineluttabilità del progressismo, i giudici contrattaccano

Il 6 gennaio una Corte d’appello federale di New Orleans ha preso in esame il ricorso alla legge che ha ristretto l’accesso all’aborto in Texas, varata al termine di una tesissima battaglia politica e dichiarata incostituzionale poco dopo la firma da una sentenza del giudice distrettuale Lee Yeakel. La legge è stata applicata e contemporaneamente ha preso a scalare i gradi giudiziari a forza di ricorsi e appelli, ed è quasi inevitabile che finisca all’attenzione del consesso che con una sentenza ha di fatto legalizzato l’aborto negli Stati Uniti, la Corte suprema. L’oggetto del contendere, nel caso texano, è la decisiva clausola per cui tutti i medici che praticano interruzioni di gravidanza devono essere accreditati presso un ospedale locale. Secondo le associazioni pro choice questa misura ha costretto un terzo delle cliniche abortive dello stato a chiudere. I ricorrenti sostengono che “la regolamentazione viola il diritto dei medici che praticano l’aborto a fare ciò che ritengono sia meglio per i pazienti, e riduce in modo irragionevole l’accesso delle donne alle cliniche legalmente abilitate a interrompere la gravidanza”. La battaglia texana sull’aborto è salita al rango di disputa nazionale anche grazie a Wendy Davis, deputata democratica che con la sua simbolica maratona di parole in scarpe da ginnastica rosa ha riacceso le coscienze dei liberal dello stato e si è costruita così l’occasione per una velleitaria campagna per il posto di governatore.

Ma l’aspetto più rilevante della questione texana è che fotografa una tendenza. Sicuro, legale e raro è il trittico di aggettivi da applicare all’aborto storicamente sbandierato dalla sinistra liberal, ma la terza dimensione, quella decisiva della rarità, è spesso lasciata alle cure dei conservatori. E così mentre le culture war americane si avviavano verso il prevedibile trionfo finale dei modelli della secolarizzazione radicale, nella questione dell’aborto sono subentrati elementi conservatori che contraddicono la legge non scritta ma ampiamente percepita del progressismo come tendenza ineluttabile. La legge del Texas è soltanto un esempio. Lo scorso anno 22 stati americani hanno approvato in tutto 70 leggi che ridefiniscono, in senso restrittivo, l’accesso all’aborto. Nel 2011 sono state oltre 80. Si va dalla riduzione del numero di settimane in cui l’aborto è legale (in alcuni casi lo spartiacque è il rilevamento del battito cardiaco del bambino) alle ecografie obbligatorie fino ai provvedimenti ospedalieri d’inclinazione texana che perimetrano la presenza sul territorio delle cliniche abortive. Entro la fine di gennaio la Corte suprema deciderà se prendere o meno in esame la legge dell’Arizona, che vieta l’aborto oltre la ventesima settimana di gravidanza, dichiarata incostituzionale da un giudice federale. Alcuni regolamenti analoghi approvati in Alabama, Mississippi, North Dakota e Wisconsin sono stati temporaneamente congelati dai giudici ma, in generale, “non è mai stato così difficile avere un aborto negli ultimi quarant’anni”, come dice il presidente dell’associazione National Right For Life, Carol Tobias.

I numeri confermano il trend: nel 1985 in America sono stati abortiti 364 bambini ogni 1.000 nati; nel 2009 la fetta è calata a 227. Se nel proscenio della politica nazionale la battaglia per limitare il diritto all’aborto è garanzia di sconfitta elettorale per chi la combatte, nei meandri della politica locale, dove nonostante le intrusioni del big government si prendono ancora decisioni che hanno un impatto profondo sull’assetto sociale e culturale, l’esito non è altrettanto prevedibile. Il movimento pro choice dice che dopo anni di ripiegamento è arrivata la fase del contrattacco (“abbiamo cambiato l’inerzia”, giura Ilyse Hogue, presidente dell’associazione Naral) e gli alleati in toga sono quelli che possono fare la differenza.

Il caso di Marlise Munoz
In Texas la questione dell’aborto s’intreccia anche con il caso di Marlise Munoz, ragazza dichiarata morta a livello cerebrale e che è tenuta in vita perché incinta. La legge del Texas impone di non staccare una donna incinta dai macchinari che la tengono in vita finché il feto è vitale – e dunque potrebbe arrivare alla nascita – e la tutela del nascituro prevale anche sulla scelta della famiglia, che vorrebbe staccare la spina e onorare così la volontà di Marlise. Non tutto tende a un destino progressista.

di Mattia Ferraresi

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