11/11/2023

Aggiornamenti dell’Istat: natalità e fecondità in Italia

Gli ultimi aggiornamenti dell’Istat del 7 novembre, derivanti da indagini effettuate presso gli Uffici di Anagrafe e Stato civile dei Comuni circa la natalità e la fecondità, fotografano indicatori e dati al ribasso. 
 
Al mese di agosto i nati dell’anno sarebbero 246.700 (i dati sono ancora provvisori), 6.402 in meno rispetto allo stesso periodo del 2022, quando erano stati 253.102, e 11.560 in meno rispetto al 2021, quando erano stati 257.260. Dunque, il 2,5% in meno rispetto al ‘22 e il 4,1% in meno rispetto al ‘21 con un’accentuazione della parabola discendente in termini reali ed in percentuale. 
 
I dati sono sovrapponibili con quelli della fecondità, che indicano un 1,24 i figli per donna nel 2022, a fronte di 1,25 dell’anno precedente, ben al di sotto della soglia di ricambio (2,1 figli per donna) che permetterebbe un equilibrio quantitativo fra vecchie e nuove generazioni. E ci sembra interessante rilevare l’assoluta omogeneità dell’indicatore per tutte le ripartizioni territoriali, Nord, Centro e Sud Italia, rispettivamente 1,26, 1,16 e 1,26, in quanto questo individua un parametro riproduttivo sempre più consolidato su scala nazionale.  
 
Se guardiamo al passato neanche tanto remoto, osserviamo che la denatalità si è accentuata negli anni ’70 per poi cronicizzarsi negli anni ’80; cosicché si è passati da un milione di nati nel 1964 a poco più di mezzo milione nel 2014. Ma ha subito un’ulteriore depressione nell’ultimo decennio con record sempre più negativi, fino al dato dell’anno scorso, 2022, di 393.000 nati. Per gli anni 90 e 2000, fino appunto al 2014, ci si era mantenuti al di sopra del mezzo milione di nascite con un record di 576.659 nel 2008. È una corsa al ribasso che sembra irrefrenabile: 485.780 (2015), 473.438 (2016), 458.121 (2017), 439.747 (2018), 420.084 (2019), 404.892 (2020), 400.249 (2021), 393.333 (2022).
 
Quali le cause? 
 
La prima, più congiunturale, sembra legata alla deprivazione quantitativa delle donne in età riproduttiva (coorti femminili nel gergo statistico). Quelle che partoriscono oggi il primo figlio, mediamente intorno ai 30 anni, sono nate agli inizi degli anni ’90 quando il numero dei nati era già fortemente contratto, come detto, sopra. L’equazione è ovvia: meno mamme = meno figli. È un circolo vizioso, un cane che si morde la coda, che, nel persistere di uno stesso costume riproduttivo protraentesi ormai da decenni e la cui cartina di tornasole è l’indice di fecondità fermo da decenni intorno a 1,25/ 1,35, produce l’ulteriore curvatura in senso discendente della parabola della natalità. 
 
Su questo costume agiscono cause note: difficoltà di trovare lavoro, di trovare un’abitazione, quindi, di mettere su famiglia e difficoltà, una volta che questa si sia realizzata, di conciliare il lavoro con il ruolo di madre. Il dato è sconsolante: il 25% delle donne italiane non diventerà mai madre, contro il 14% delle americane e il 10% delle francesi. Inoltre, l’età avanzata in cui si decide di affrontare la prima gravidanza incide sull’aumento dell’infertilità, che affligge ormai il 20% delle coppie italiane. “I lunghi anni della vita riproduttiva vengono impiegati tra università, la ricerca di un lavoro stabile e di una solidità economica, e quando finalmente si riesce ad ottenere una stabilità lavorativa, economica e di coppia il pensiero di dover rimettere tutto in discussione per avere dei figli mette timore” (Giulia Cortese su Futuro Europa del 9-10-2014).
 
E la denatalità è destinata ad accentuarsi sempre più, se non si interviene adeguatamente. Pertanto, l’Italia si presenterà nei decenni venturi con una struttura per età fortemente squilibrata, con ultrasessantacinquenni che saranno all’incirca il doppio dei giovani con meno di 15 anni. 
 
Ma il problema più strutturale attiene ad un fattore culturale, avendo a che fare con la promozione della vita.
 
Non c’è voglia di diventare genitori, perché questo non costituisce più un valore o, se lo costituisce, non è prioritario.
 
Qui agisce il nichilismo e l’affermazione della cosiddetta sovranità riproduttiva che ha portato al diritto all’aborto come orizzonte valoriale. E non è politicamente corretto rimarcare che l’introduzione della 194 ha influito sul fenomeno, dal momento che è proprio negli anni ’80 che l’indice di fecondità (il numero di figli per donna) si è stabilizzato al di sotto della soglia di ricambio generazionale.
 
Clemente Sparaco
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