26/08/2017

Aborto – Lucrare sulla strage degli innocenti

Coloro che difendono e promuovono l’aborto sono generalmente gli stessi che ne traggono immensi profitti economici: c’è una stretta sinergia tra lobby ideologiche e lobby economiche.

Chi dice di essere paladino del “diritto alla scelta” e del “diritto alla salute riproduttiva” delle donne, in realtà – a ben vedere – è molto attento al business.

Aborto in USA

Per esempio negli USA. I dati pubblicati ogni anno dall’Alan Guttmacher Institute, che svolge ricerca per la Planned Parenthood Federation, l’ente abortista più grande del mondo, parlano di entrate per circa 500 milioni di dollari dagli aborti praticati nel primo trimestre e poco meno da quelli praticati nel secondo e terzo trimestre (l’aborto costa tanto di più quanto più è avanzata la gravidanza). Se a queste cifre si aggiungono i contributi statali (a spese dei contribuenti) il giro d’affari di Planned Parenthood supera certamente il miliardo di dollari l’anno.

Abby Johnson, ex direttrice di un’importante clinica abortista del Texas, ha rivelato a Fox News che la politica di Planned Parenthood è tutta tesa a moltiplicare le entrate moltiplicando il numero degli aborti: per ammissione degli stessi dir genti, la politica di prevenzione non va implementata perché non altrettanto redditizia. Altri ex impiegati di PPF hanno dato testimonianze analoghe: il profitto prima di tutto (e prima anche degli standard minimi igienico-sanitari: sono innumerevoli le cliniche PPF che le agguerrite associazioni pro life americane riescono a far chiudere denunciandole per violazione delle regole sanitarie basilari).

Sul fronte politico, per promuovere e diffondere l’aborto nel mondo, esistono associazioni come l’americana Emily’s List che si occupa di selezionare e formare donne pro choice che possano candidarsi nelle liste dei partiti progressisti. Per queste organizza poi campagne elettorali milionarie con le quali si vanta di aver fatto eleggere decine di militanti pro aborto al Congresso, al Senato e al Governo di diversi Stati federati.

In Europa l’organizzazione Marie Stopes International (MSI) riceve dal governo britannico milioni di sterline. Collabora anche con la Cina insieme all’UNFPA (agenzia dell’ONU per la pianificazione familiare) nel brutale programma di pianificazione delle nascite: sterilizzazioni e aborti forzati, fino al nono mese, che alimentano oltre tutto un ignobile traffico di feti e di placente.

Somme enormi circolano anche intorno al business della pillola abortiva Ru486. La fabbrica francese Exelgyn, che la produce e la distribuisce, nel 2009 ha registrato un giro d’affari di oltre 14 milioni di euro. Ricorda Ilaria Nava che, in America, il brevetto dell’Ru486 viene donato nel 1994 dalla Roussel Uclaf (l’azienda che in origine produceva la pillola) all’Istituto di ricerca Population Council di New York, il quale subito dopo riceve dalla Buffet Foundation (finanziatore anche della Planned Parenthood) un prestito senza interessi da 2 milioni di dollari. La commercializzazione vera e propria della pillola inizia, però, solo nel 2000, quando l’azienda distributrice negli USA, Danco Laboratories (che ha tra i suoi prodotti solo l’Ru486), sceglie come produttore l’azienda statale cinese Hua Lian Pharmaceuticals, con sede a Shangai, che già produceva la pillola per la Cina da almeno 9 anni. Ad aiutare la casa farmaceutica cinese a raggiungere gli standard di produzione richiesti negli USA, interviene con consistenti elargizioni la Rockefeller Foundation. La Danco, a sua volta, riceve un prestito di 10 milioni di dollari dalla David e Lucile Packard Foundation, un’organizzazione che si occupa di “salute riproduttiva” nelle aree del mondo ad alta fertilità, come India, Nigeria, Etiopia, Pakistan e Filippine. Insomma, come osservavamo all’inizio: un bell’intrico di interessi economici e ideologici.

Aborto in Spagna

In Spagna la quasi totalità degli aborti (97%) è realizzata in strutture private. Scriveva Avvenire che il business degli aborti in questo Paese raggiunge ricavi annuali di circa 50 milioni di euro, senza contare le interruzioni pagate in nero, senza alcuna traccia fiscale. Il ginecologo Carlos Morìn grazie al denaro guadagnato con gli aborti, abita in una villa del valore di 4,2 milioni di euro (la “Villa Morìn”) con campo da golf, piscina, Ferrari e diverse altre auto di lusso. Nel 2005, la Ginemedex, una delle sue cliniche più attive, ha fatturato 1,5 milioni di euro, ma il giro d’affari è sicuramente sottostimato, dato che l’inchiesta ha scoperto che le ra- gazze che passavano sotto le sue mani pagavano i compensi in nero.

Il business dell’aborto non finisce qui: somme enormi di denaro non arrivano unicamente dall’esecuzione delle interruzioni, ma anche dallo smercio del “materiale di scarto”, ovvero dalla vendita dei poveri feti abortiti per scopi cosmetici, farmacologici e di ricerca.

Aborto e cosmesi

Nell’aprile 2011, l’avvocato Virginia Lalli, responsabile del Settore Donne per Nuove Frontiere onlus, aveva scritto che i ricercatori dell’Università di Losanna hanno notato che i bambini che subivano interventi chirurgici mentre si trovavano nell’utero materno, non presentavano alcuna cicatrice grazie alla capacità rigeneratrice delle cellule fetali, quindi hanno pensato che tali cellule potevano essere utilizzate per il trattamento delle ustioni. Dalla medicina alla cosmesi il passo è stato breve: gli studiosi si sono associati al laboratorio Neocutis, autorizzandolo a commercializzare la prima crema anti-rughe a base di cellule di pelle di feto. La crema si può comprare negli USA su prescrizione medica al prezzo di 180 dollari, e via internet in Europa a 90 euro.

Nel 2004 il Guardian aveva pubblicato un articolo a proposito di una compagnia cinese che fabbrica cosmetici utilizzando feti abortiti. Ma in Cina il traffico e l’uso di feti e neonati morti è angosciante: nel 2003, l’ufficio di Pubblica sicurezza del Guangdong ha cercato di bloccare notizie secondo cui in alcuni ristoranti della pro- vincia meridionale si serviva brodo di bambino. Nel 2009 un dossier di Harry Wu, sulla crudele politica del figlio unico, ribadiva la notizia e vi aggiungeva disgustosi particolari (una porzione costa 3500 RMB, circa 500 euro). Ad agosto 2011 le autorità doganiere di Seul hanno sequestrato all’incirca 17.450 compresse composte per il 99,7% di materiale umano.

Aborto e ricerca

E tuttavia il business dell’aborto non finisce nemmeno qui: i bambini abortiti sono smerciati anche per finalità legate alla ricerca come, per esempio, elaborare vaccini o testare sostanze nocive: pare che il commercio dei feti a questo scopo nel 2000 rendesse già un miliardo di dollari americani. Troppi sono gli scandali finiti sui giornali, fin dagli anni ’80. Ricorda la Lalli, ad esempio, che molte ricerche mediche sono state effettuate, e lo sono ancora oggi, su bambini sopravvissuti fortuitamente all’aborto. In Inghilterra la Langhman Street Clinic (specializzata in aborti) vendeva feti vivi tra la 18a e la 22a settimana al Middlesex Hospital. Philip Stanley, portavoce della clinica, ha dichiarato: «La posizione è chiara. Un feto deve avere 28 settimane di vita perché sia riconosciuto legalmente come essere umano. Prima di questo momento equivale a spazzatura». La Lalli prosegue osservando che vi sono cliniche che consigliano alla donna che vuole abortire di ritardare l’intervento, per poter usufruire di bambini ben sviluppati, con organi funzionali e in perfette condizioni. Questi bambini di 18 settimane e più, vengono estratti con taglio cesareo, permettendo così al medico abortista di soddisfare le richieste degli acquirenti (industria farmaceutica, cosmetica, ricercatori universitari). Costoro pagheranno per il feto abortito tra i 70 e i 150 dollari, ricevendolo con il certificato: estratto dal seno materno “in stato di vita”.

La Lalli fa anche notare la coincidenza temporale tra la scoperta di alcuni vaccini, tra la fine degli anni ’60 e l’inizio degli anni ’70, e la legalizzazione dell’aborto nei paesi cosiddetti “democratici”.

Nel 2012, in Russia alcuni cercatori di funghi hanno rinvenuto cinque botti di legno contenenti 248 embrioni umani delle dimensioni di circa 10 centimetri. Elena Mizulina, presidente del Comitato della Duma per le questioni della famiglia, delle donne e dei bambini, ipotizzava si trattasse di traffico illegale di embrioni. «Ogni anno nel nostro Paese – ha detto Mizulina – si fanno aborti illegali nell’ordine di 5-6 milioni», nonostante la legge sia ancora molto liberale. In Russia agisce un’intera industria che fornisce materiale abortivo alle aziende farmaceutiche e a quelle che producono cosmetici, «non si esclude che si aspettassero un controllo degli organi di sorveglianza e perciò abbiano deciso di liberarsi di prove del reato».

Aborto e salute delle donne

Ora si comprende meglio perché, a livello globale, vi è interesse a tacere le conseguenze sulla salute delle donne causate dall’aborto: se le donne si rendessero conto di essere state in- gannate da chi ha agitato loro lo specchietto per allodole del “diritto di scelta” e “diritto di aborto”, e ricominciassero a portare avanti le gravidanze invece di interromperle, e a pretendere dai governi politiche economiche, sociali e fiscali a sostegno della maternità, legittimate dal fatto che i figli sono una ricchezza che va a beneficio dell’intera collettività, coloro che oggi si arricchiscono armeggiando nei loro grembi, coloro che ingrassano il conto in banca con il sangue innocente, con il dolore delle madri e a discapito della loro salute, dovrebbero dire addio ai loro enormi e facili guadagni.

Care donne che gridate “l’aborto è un diritto”, c’è chi si frega le mani pensando al grasso profitto!

Lorenza Perfori

Articolo pubblicato sulla rivista Notizie ProVita di aprile 2015, pp. 14-15-16


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