30/08/2018

Utero in affitto: «Mi ha spezzato il cuore»

L’utero in affitto è una pratica buona e lecita? È un atto di altruismo, segno di amore?

O forse l’utero in affitto è un’azione egoistica, che schiavizza le donne e rende i bambini merce di scambio?

Lo scontro tra le due posizioni presentate è noto: utero in affitto sì, utero in affitto no. Oggi vogliamo  lasciare spazio a una testimonianza pubblicata sull’Huffington Post che rende evidenza in maniera oggettiva di quanto si sta parlando: sono le parole di una donna che ha affittato il proprio utero per ben due volte, quando era poco più che ventenne, e che ne è uscita con il cuore spezzato.

Utero in affitto: la testimonianza

La donna racconta che quando aveva vent’anni si svegliò dentro di lei il desiderio di rimanere incinta. Tuttavia, era ancora al college e aveva un lavoro part-time, quindi non era nella condizione adatta. Poi la decisione, dopo aver visto un servizio sull’utero in affitto: «Voglio farlo».

Fece tutto da sola, a 22 anni: l’annuncio su internet, la scelta della coppia (due uomini), la scelta di utilizzare il suo ovulo (cosa che in genere si evita, con l’illusione di diminuire il legame mamma-figlio), la contrattazione del compenso... ed è così che, dopo 9 mesi di gestazione e 48 ore di travaglio, Natalie vide la luce. Scrive la donna: «Mentre ascoltavo il suono delle sue prime grida, il mio cuore andò in frantumi». La bimba venne subito posta tra le braccia dei suoi due “padri” e «mentre i nuovi “coniugi” [le virgolette sono nostre, ndR] tornavano a casa dall’ospedale con il bambino al seguito, andai a casa mia con le braccia vuote e il cuore spezzato».

I mesi seguenti sono segnati dal dolore, dalla ricerca di conforto in forum online dove altre donne condividevano le sue stesse «montagne russe emotive»: donne che cercavano di farsi forza tra loro per reagire alla perdita di un figlio.

«Sfidando la ragione, sono diventata di nuovo una surrogata, dando alla luce solo 15 mesi dopo un’altra bambina sana. Qualsiasi terapeuta ti direbbe che stavo ricreando un trauma per ottenere una parvenza di controllo sulla situazione, la seconda voltaQuando Daisy [nome di fantasia, ndR] è nata, è stata messa sul mio petto e ho contato le sue 10 dita delle mani e  dei piedi, le ho baciato i capelli biondi e ho sussurrato “Ti amo” nelle sue orecchie mentre stringeva saldamente il mio mignolo. Poi, l’ho messa tra le braccia di sua madre – la mia “madre prescelta” in lingua la madre committente [c’è un controsenso nella neolingua che si usa intorno all’utero in affitto, in Italia: tutti chiamano “madre surrogata” quella che in effetti è una “surrogante”, una che “sostituisce”; sarebbe “surrogata”, cioè “sostituita”, la donna che compra il bambino dalla surrogante... Per evitare confusione chiamiamo quest’ultima “committente” o “acquirente” ed evitiamo di chiamarla “madre”, ndR] colei che l’avrebbe allevata e amata ogni giorno».

Da quel momento, tutto cambia. Lei è cambiata.

Testimonia la donna: «Poco dopo il parto, la mia relazione sentimentale è finita e ho iniziato a capire quanto la maternità surrogata mi avesse cambiata. E non era solo perché le smagliature ora adornavano il mio corpo, per i ricordi fisici di ciò che avevo passato per rendere gli altri genitori. La maternità surrogata ha cambiato il modo in cui amavo: sono diventata più guardinga con il cuore. Ha cambiato il modo in cui vedevo le madri con i loro bambini. A volte, la gelosia mi sopraffaceva mentre guardavo le madri giocare con i bambini piccoli nel parco mentre mi occupavo di quelli cui ho fatto da bambinaia. E sebbene avessi saziato il mio desiderio di sperimentare la gravidanza, il mio istinto materno non si placava mai: diventava solo più forte».

Passano così oltre dieci anni, segnati anche da un periodo di terapia per superare il segno che l’utero in affitto aveva lasciato nella sua vita. Fino a quando la donna decide di aprirsi nuovamente alla maternità, questa volta da madre single. Nasce la terza bambina: Evelyn, un dono desiderato e accolto in pienezza.

«Ascoltando le grida di mia figlia [...] si è rotto il mio cuore spalancato, abbattendo i muri che avevo costruito tanti anni fa. La prima volta che mi sedetti su una sedia a dondolo a cullare la mia neonata e le canticchiavo una ninna nanna, grandi lacrime calde mi sfuggirono dagli occhi. Le mie grida silenziose si trasformarono in singhiozzi che erano profondi, gutturali e curativi. Le lacrime erano una liberazione – una manifestazione fisica dei sentimenti di perdita cui mi ero aggrappata da anni. Mentre inzuppavo la testa confusa della mia nuova bambina, piangevo per tutto ciò cui avevo rinunciato e perduto quando avevo partorito più di dieci anni prima come  surrogata».

La testimonianza, che come si è visto è colma di dolore e che ha provocato nella vita della donna conseguenze non secondarie, si conclude con una  sorta di auto-giustificazione, laddove la donna dice che l’esperienza dell’utero in affitto le ha dato la possibilità di vivere in maniera più consapevole e profonda l’esperienza di maternità con la sua ultima bambina e laddove riconosce che le figlie che ha venduto sono ora felici e amate [il fatto di non essere ricorsa a un’agenzia le ha permesso di mantenere i contatti con loro, ndR]. Figlie dalle quali ha sofferto il distacco, ma che ama «come farebbe qualsiasi madre: con tutto il mio essere».

Con l’utero in affitto, infatti, una donna diventa comunque madre e nasce un figlio, al di là del fatto che vengano poi separati. E dagli errori si possono imparare tante cose.

Giulia Tanel

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