24/03/2017

Gender fluid: genitori confusi crescono bambini disorientati

«Mio figlio ha nove anni ed è gender fluid»: titola così un articolo apparso su La Stampa nell’ambito della rubrica «È sempre l’otto marzo».

Il tema trattato è quello dei bambini che non si “rispecchiano” nel loro sesso biologico, e in particolare dei maschietti: «Le bambine – afferma infatti Camilla – sono giustamente libere di esplorare il genere maschile, di indossare pantaloni, costumi di spider e fare skate: questo le arricchisce e le fa crescere più forti e consapevoli. Diamo anche ai maschi questa possibilità».

Camilla è una tri-mamma fiorentina che ad agosto ha aperto il blog “Mio Figlio in Rosa – Storia di una crescita anticonvenzionaleper dare spazio e voce alla storia del suo bambino L., di nove anni, definito normalissimamente gender fluid La “normalità” come concetto stesso quindi è variabile», sostiene la donna).

Oltre a questo spazio virtuale, che vorrebbe fungere da connettore tra famiglie che presentano la stessa particolarità (non si dica “problematica”, mi raccomando), Camilla sta anche scrivendo un libro e tentando di fondare un’associazione: «Il mio obiettivo – afferma – è condurre una grande campagna culturale per dare a mio figlio e agli altri bambini gender fluid lo spazio dell’agibilità. Non è la persona non conforme che deve adeguarsi per proteggersi, non sono io madre che devo conformare mio figlio, altrimenti lo espongo a sofferenza certa, ma sono gli altri che devono imparare a conoscere, capire ed accettare». Di qui la scelta di insegnare al proprio bambino a rispondere, quando viene interrogato sui suoi vestiti da femmina, che «Ognuno ha i suoi gusti»... ma in realtà la cosa non sorprende, se letta su un blog dove si afferma che il gender è «un neologismo nato in ambito cattolico negli anni Novanta» (sic!).

Da queste poche frasi emerge in maniera evidente il nocciolo della questione: siamo di fronte a un vuoto educativo, per cui i genitori non sono più guide e maestri dei propri figli, ma navigano trasportati dalle ideologie del momento, senza una meta certa cui puntare. Ovviamente il tutto – come scrive candidamente un’altra mamma sul blog di Camilla – «infischiandocene del parere degli esperti che si spendono in raccomandazioni per rafforzare l’io biologico dei bambini cosiddetti “confusi”». Sì, il “parere degli esperti”: perché la scienza – oltre al buon senso – ci dice che si nasce maschi e femmine e che le figure di riferimento del bambino (possibilmente la mamma e il papà, maschio e femmina) hanno il delicato e prezioso compito di aiutare il piccolo a crescere e a maturare nella propria identità sessuata, direttamente collegata al sesso biologico (e non “gender“) di nascita. E scienza che ci parla anche del rischio sulla salute psico-fisica dei transgender.

Si tratta di concetti semplici: siamo XX o XY, e come tali è giusto (e benefico, in tutti i sensi) comportarsi. Altrimenti si cade in un vortice basato sul sentimento del momento, volubile nel contenuto e nel tempo. Un pericolo del quale anche Camilla pare essere consapevole, almeno quando scrive – in un altro articolo pubblicato sul blog, richiamando alla responsabilità genitoriale: «Per quanto riguarda voler essere un gatto o un cavallo o un topo… ancora non mi è capitato. Se dovesse succedere sicuramente mi interrogherei ma qualcosa mi dice che la fantasia super divertente svanirebbe al primo bidet che i bambini sarebbero costretti a farsi leccandosi il sedere! Da genitori bisogna sapere distinguere anche tra fantasia e realtà! Tra ciò che può essere qualcosa che causa un reale disagio ai nostri figli e ciò che invece rappresenta solo un gioco di ruoli».

Insomma, se suo figlio volesse essere un gatto, qualche domanda Camilla se la porrebbe... meglio di niente ma è ancora poco, e suo figlio certo in futuro non la ringrazierà per questa sua accondiscendenza, mascherata dietro una presunta “apertura mentale”.

gatto_gender_ transessualismo

I bambini hanno bisogno di essere guidati nella crescita: l’apparente bellezza della libertà di scelta è per loro troppo grande, non hanno ancora le forze per gestire in autonomia questioni complesse, se non lasciandosi guidare dall’emotività e dall’istinto (il che lo si può vedere benissimo pensando al cibo: un bambino non pensa se la Nutella fa bene o male, pensa che è buona e ne ha voglia). A due anni, come Camilla sostiene abbia fatto L., i bambini hanno il diritto di fare i bambini, e così a sei e, sotto certi aspetti, anche nell’adolescenza: ogni epoca della vita è atta a uno scopo, anticiparne o addirittura negarne il significato è nocivo. E non si parli di ormoni o altre sostanze che dovrebbero andare a bloccare lo sviluppo fisico per consentire di raggiungere una maturazione psicologica utile per la scelta del proprio “gender”, perché questo non significa sostenere nella crescita, ma assecondare dei pensieri e delle attitudini disfunzionali che, nel tempo, non potranno che dare origine a problemi (talvolta così gravi da spingere le persone al suicidio, in maniera tanto maggiore quanto minore è stata l’età in cui si è scelto di comportarsi da transgender).

Queste riflessioni sono supportate, se già non bastasse, dai bambini stessi.

Come emerge dagli scritti di Camilla, infatti, L. è alla disperata ricerca di un’identità stabile: lui non vuole essere gender fluid, vuole essere femmina; il punto sta quindi nel capire come accompagnarlo nel sviluppare un’identità conforme al suo sesso di nascita. In secondo luogo, ci sono i bambini con cui L. entra in contatto: anche se il bimbo si veste e si comporta da femmina, loro sanno che è un maschio. Il gender i bambini lo ignorano, loro concepiscono solo il sesso d’appartenenza: che sia un semplice caso, oppure il segnale di dove sta la verità della questione?

Nel concludere, un’ultima domanda, solo apparentemente marginale ma invece di vitale importanza per definire meglio i contorni dell’intera vicenda: in tutto questo, il padre del piccolo L. dov’è?

Teresa Moro


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